E fare della crisi una ricchezza

“I 40 anni sono quell’età in cui ci si sente finalmente giovani. Ma e’ troppo tardi” (Pablo Picasso).
 “La vita comincia a quarant’anni, l’età è solo uno stato mentale. Se tutto ciò è vero, mi sa che sono rimasto morto per trentanove anni” (John Lennon).
“I quarant’anni sono la vecchiaia della giovinezza, ma i cinquant’anni sono la giovinezza della vecchiaia”(Victor Hugo).
E potrei moltiplicare all’inverosimile le citazioni che sottolineano come i quarant’anni siano “un’età spietata”. Me ne rendo conto particolarmente ora quando molti amici che hanno preso parte ai miei campi scuola e agli esercizi spirituali cominciano ad invecchiare e raggiungono quell’età caratterizzata da una crisi che amerei vedere da un punto di vista positivo.
Ne parlo prendendo lo spunto dalla visita di un amico che vive una situazione nella quale anche altri possono riconoscersi. Quarantenne. Buona la famiglia d’origine. Brillante l’esito scolastico. Un’esperienza forte in cui Dio è stato respirato nell’abbraccio di tanti amici. Matrimonio ben riuscito per quindici anni. Tre figli uno più bravo dell’altro. Successo nel lavoro…
Ma, tutto d’un tratto: gli amici vanno in crisi con il loro matrimonio e  producono un crisi di riflesso, legata all’incapacità di aiutarli.  Il lavoro non dà soddisfazioni. Non c’è novità nella vita. Momentaneo sbandamento del rapporto coniugale, fonte di angoscia, rabbia e preoccupazione, anche quando tutto sembra risolversi per il meglio.
Inoltre, ha la percezione che il crollo dei valori e della finanza a livello mondiale non permetta di sognare un futuro roseo per i figli. E sopraggiunge  spietato il momento in cui  scopre i propri limiti: fa esperienza di non essere migliore degli altri e si sente incapace di perdonare se stesso.
Sembra che l’adolescenza tutto d’un tratto riesploda; si illude di poter tornare da capo, con nuove esperienze, nuove attività, nuovi rapporti. Ma sorge pure  l’incubo: se non cambio ora, tutta la vita sarà monotona. Se non lascio questo ambiente, mi soffocherà. Se non capita qualche cosa di nuovo, sarò schiacciato dalla mia miseria.
Nel tentativo di cercare insieme a lui di accendere una candela, anziché buttar via il tempo a lamentarci delle tenebre,  abbozzo due riflessioni: la prima legata al Vangelo della scorsa domenica, XXX del tempo ordinario dell’anno C (2010), la seconda basata su una lettera di mio fratello GianCarlo.
 
Il Vangelo narra la parabola del fariseo e del pubblicano. Il primo osserva la legge e va anche oltre ciò che è prescritto. Ma pecca perché si ritiene in credito presso Dio. Pensa di salvarsi con le sue forze. Si attende una ricompensa eterna come merito del suo giusto operare. Lascerà il tempio con la coscienza gravata dal peccato di presunzione.
Il pubblicano, invece, non ardisce accostarsi all’altare. Si ferma a distanza. Supplica: “Abbi pietà di me, peccatore!”. Sa di meritare nulla. Può contare solo sulla divina misericordia.
Dio ci attende al fondo della nostra povertà che Egli può convertire in grandezza. C’è luce in fondo al tunnel, ma la strada da percorrere è dolorosa, difficile e stretta. Non è fatta per chi vuole stare sul piedistallo e continua a dire: “Io. Io. Io”. Che cosa ha l’essere umano di suo? Il peccato. Quello è solo suo. Ed è  tanto più grave, quanto più è  avvolto da quel narcisistico comportamento di non volerlo ammettere o di essere incapace di superarlo, grazie all’umile accusa e alla determinazione di perdonare se stesso.
Il pubblicano, proprio perché chiede perdono dei suoi peccati e li offre al Signore, ha in cambio la grazia, l’amicizia con Dio e tutte le virtù che sono garantite alla persona umile. Ecco un vantaggioso scambio: offriamo a Dio la nostra colpa e Lui ci dona tutto se stesso.
Se il quarantenne in questione fosse vittima anche della superbia  e dell’orgoglio – comuni tentazioni in ogni età -  potrebbe trarre vantaggio da questa lettera  che trascrivo senza alcun commento, grato a chi vorrà portare il suo contributo a fare chiarezza, anche senza essere ancora arrivato ai quarant’anni. Basta che si confronti con persone adulte che sappiano trasformare le crisi in risorsa vitale.
“Dio è amore, e poiché ama crea, dona vita, gioia e bellezza.
Le sue creature sono a sua immagine, improntate sul principio dell’amore per cui possono ( non devono) fare come Lui.
 L’antico “Meglio dare che ricevere”, è meglio per sé e per l’altro. Dove il dare può essere pane, danaro, amore, simpatia, accoglienza invece di quel fastidio che prelude al rifiuto.
 Le creature possono non riuscire a comportarsi così semplicemente perché non sono perfette: per fortuna nessuno lo è. 
Essendo consapevoli dell’imperfezione possono avere tanta intelligenza da accettarla.
Lucifero amava ma non pienamente.
 L’amore in-completo ha lasciato spiragli:
- all’invidia ( quanto è grande Lui e io invece no);
- all’orgoglio ( io sono grande più di tutti gli altri);
- alla superbia ( anch’io posso …). 
È stata la sua dannazione.
Eppure avrebbe potuto salvarsi se semplicemente avesse accettato il suo stato, i limiti e anche il peccato. 
Invece dopo aver peccato di superbia ha aggiunto la superbia di non riconoscerla. 
Ha avuto paura del fallimento e della catastrofe.
 Orgoglio e superbia  promettono tanto e tutto e invece sono illusori, portano inquietudine costante, alla fine rovinano l’uomo. 
(L’uomo non vuole vedere le positività degli altri che farebbe tanto bene a loro e ancor più a lui).
 Tu che hai “facilità” di parola come diceva don Davide, prova a scrivere, per me, un racconto di come avrebbe potuto andare diversamente la storia di Lucifero. 
(Ma Lucifero ti sta già fregando facendoti pensare di scrivere per pubblicare, ma lo freghi tu). 
Lo scopo è quello di dire a tutti i cristiani buoni e seri che come diceva Isaia l’uomo si ravvede solo attraverso la catastrofe.
 Che vedere e riconoscere la catastrofe della propria vita è passaggio inevitabile.
 Che la catastrofe non è la fine, ma la possibilità dell’inizio vero.
 Che dalla catastrofe nasce la “metanoia”. 
Quindi solo attraverso la passione  si può andare verso la Pasqua.
 Allora c‘è la resurrezione.
Allora non sono più IO che vivo ma è Cristo che vive in me.
 A quel punto scompare la paura che attanaglia e ti spalanchi al mondo con tutta la tua umanità debole e meravigliosa ( “Quando sono debole allora sono forte”,  dice S. Paolo).
L’alternativa c‘è: tenere tutta la vita una maschera che porta ansia e angoscia e ti fa sprecare la possibilità della vita vera, che è una sola”.

Valentino