La croce non si spiega, si adora

Questa settimana ho ricevuto due lunghissime lettere, entrambe centrate sulla fede messa in crisi dalla sofferenza. Una è scritta da un ricercatore della “Bocconi”, che guarda al suo passato e descrive il presente mettendo in evidenza il modo irrazionale e assurdo di considerare il dolore a livello puramente umano, escludendo il ricorso alla fede.

L’altra è redatta da un neolaureato in filosofia alla Cattolica. Egli mi provoca, facendo leva sul fatto che io pure ho studiato filosofia in tre facoltà, con orientamenti radicalmente diversi, una tomista, una atea e una aperta ai segni dei tempi.

Tra chi guarda al passato e chi è irretito in un presente chiuso alla trascendenza, mi propongo di guardare al futuro con l’animo di un bambino che si ostina a voler sognare o come un adulto che, anziché lamentarsi delle tenebre, accende una candela.

L’amico concentrato sul presente vuole che approfondisca alcune affermazioni che avevo fatto durante una conferenza: «Dopo aver ascoltato la sapienza umana di tanti popoli, sono arrivato alla conclusione che quanti rimangono a un livello puramente umano difficilmente riescono a capire il mistero del dolore. Senza una fede tutto, prima o poi, perde senso.

Senza Dio il dolore è assurdo; con Dio diventa mistero. L’assurdo è un muro contro il quale l’ateo “spacca la testa”. Il mistero è come la notte che piano piano sfocia nell’alba. E’ come una scala che, ben radicata in terra, invita a salire: la scala sognata da Giacobbe, ben piantata sulla terra, raggiunge la cima del cielo (cfr.Genesi 28,12)».

Un certo tipo di filosofia può fare tanto male, mentre senz’altro può fare molto bene “l’umanesimo integrale”, nato in quella stessa Francia che ha dato vita anche a Sartre, con la sua visione disfattista, angosciosa e angosciante dell’esistenza umana.

Ma prima di interpellare il grande filosofo credente Jaques Maritain, possiamo trarre vantaggi pure da quella psicologia che è aperta a tutti i valori dell’esistenza: indipendentemente da quanto ha detto Cristo, una persona, per apprezzare la vita, deve prima “morire”, ossia deve entrare nelle profondità del dolore per penetrarne il mistero: quando ne esce, è in grado di apprezzare tutto, di considerare ogni giorno come un dono che non può assolutamente essere sottovalutato, tanto meno disprezzato. Chi accetta questa intuizione, facilmente capirà l’importanza di “morire” giovani, per avere poi tutto il resto della vita da godere, grazie alla sua “resurrezione”. Vivere proiettati in un futuro radioso.

La nostra società fa di tutto per esorcizzare ed eliminare il dolore; di conseguenza non aiuta a vivere, anche perché ci ruba il corpo, l’intelligenza e la speranza.

Nostro comune problema non è come uscire dal dolore, ma come entrarci intelligentemente, in modo da convertire in opportunità quello che umanamente parlando appare come un fallimento, una crisi, uno scacco matto delle umane possibilità.

Rafforza questa intuizione tutta la teologia, in particolare la Cristologia. Gesù parla di morire per vivere. San Paolo concretizza il discorso del Maestro: si deve far morire l’uomo vecchio, così che nasca l’uomo nuovo, che non vive più per sé, ma per Dio: «Per me vivere è Cristo, e morire un guadagno».

L’altro amico, il ricercatore della “Bocconi”, mi fa dono del suo passato, che qui riassumo per sommi capi. Amava il grigiore del cielo. Gli piaceva. Lo respirava. Tutto il suo “io” si tendeva verso l’Assoluto cercato nella pioggia grigia e fredda: il suo cervello sembrava fatto per riflettere meglio con quelle condizioni atmosferiche.

Seppur inconsciamente, da bambino, toccava vette sublimi quando si rannicchiava a piangere sotto le coperte, pregando Dio che gli facesse sperimentare la stessa sofferenza vissuta da migliaia di bambini africani, affinché fosse loro alleviata la pena. Fuori e dentro di lui pioveva. Conservava dentro di sé una sofferenza limpida e cristallina nei più reconditi angoli della sua anima.

Finché percepiva il dolore suo e dell’umanità, riusciva a credere in Dio. Quando ha detto a Cristo che non voleva più sentirlo al suo fianco, assieme a Lui ha perso la dimensione universale della vita. E il tutto ha perso senso. Per un po’ è riuscito a vivere mediocremente. Qualcuno (una sua “professoressa”), ha cercato di convincerlo dell’assurdità del credere: specialmente inconcepibile la fede cristiana, là dove afferma che l’uomo nasce con un peccato da scontare per tutta la vita.

Ma proprio questo tentativo che poteva portarlo all’ateismo, l’ha obbligato a reagire: «Cara “professoressa”, non capisci che ciò che stai irridendo è il nostro esistere? Non capisci il grande vantaggio dei Cristiani che nascendo con un peccato addosso, con un dolore innato nell’anima, con un difetto cucito nello spirito, sono obbligati a sperimentare sin dal primo anelito la sofferenza morale, ma hanno la possibilità di redimersi con un niente? Chi nasce perfetto e non più perfettibile cos’ha da chiedere alla vita? Può solo peggiorare. Invece ai Cristiani è donata almeno la libertà di migliorarsi».

Proprio da quest’ultima affermazione prendo lo spunto per andare oltre il ricordo del passato e oltre la tentazione di arenarsi in un presente caratterizzato da un cielo grigio, per intonare il canto della speranza.

Ma prima di guardare al futuro, mi si permetta una constatazione riguardo alla professoressa atea: “Chi cerca di strappare Dio dal cuore dell’uomo, assieme a Dio gli strappa il cuore”.
Ma se in esso alberga il Signore, allora si spalancano orizzonti nuovi, cieli nuovi, colorati dalla speranza: virtù che nasce dalla fede e sfocia nell’amore.

Pure io, da ragazzo, piangevo e pregavo per i miei compagni di classe che non partecipavano alla liturgia domenicale: chiedevo al Signore – inginocchiato con le mani sotto le ginocchia per fare penitenza – che non li mandasse all’inferno. Recitavo giaculatorie riparatrici quando bestemmiavano. Correvo in chiesa, davanti all’altare della Madonna, quando m’invitavano a cercare piacere in azioni che sentivo essere impure.

Ho trascorso l’adolescenza in seminario, piangendo continuamente per la mancanza della mia famiglia, e so che quelle lacrime non furono sparse invano. Ora so che Dio le conserva nei suoi otri, lassù nel Cielo.

In quasi quarant’anni d’Africa sono stato alla scuola del dolore e, mettendo il dito nel costato sanguinante di Cristo – il costato di tutti i sofferenti della terra – ho sperimentato la verità della profezia di Isaia, riferita al Messia: «Le sue ferite ci guariscono».

Non c’è molto da spiegare e da dimostrare: il fare proprie le sofferenze dell’umanità, mentre permette di sperimentare che c’è più gioia nel dare che nel ricevere, dà un’inspiegabile carica, un’ineffabile gioia nel buttarsi nella vita a lenire i dolori, a consolare tante sofferenze, a cercare persone che condividano la stessa fede nel Dio che prospetta una croce come trampolino di lancio verso la resurrezione.

Una croce che non va spiegata, ma adorata.

Valentino