Solo a carnevale si va in maschera

Nonostante i quattro gradi sotto zero, la sala in cui devo tenere la conferenza è gremita di gente: oltre alle omelie domenicali, ha favorito l’afflusso degli uditori la mia presenza a quella televisione, contro la quale non mi stanco mai di parlare male. Mi trovo in un paese vicino al mio e sono trattato con rispetto, sì, ma anche con quella familiarità tipica delle persone che da anni si scambiano il saluto e la battuta, non sul tempo o sullo sport, ma sulla Chiesa.

Ed è proprio su quest’ultima che a raffica si concentrano le obiezioni: «Perché le chiese si svuotano?». «Perché i preti danno tanta importanza ai peccati legati alla sessualità, rispetto a quelli legati alla giustizia?». «Non è ora che cambi la legge che proibisce ai risposati di ricevere la Comunione?». «È più di vent’anni che non mi confesso e sto bene così». «Perché la Chiesa dice che dobbiamo essere umili e scomparire, mentre per sopravvivere oggi dobbiamo fabbricarci un sorriso, camuffare le nostre rogne e le ferite per presentaci sempre giovani, belli, allegri?». «Senza una maschera si è nudi e vulnerabili. Perché la Chiesa vuole farci sempre sentire limitati e peccatori?».

Rispondo globalmente alle ultime tre domande, non senza avere specificato che da anni, ormai, non si sentono preti parlare di sessualità dal pulpito e pure in confessionale, salvo rare eccezioni, i confessori non pongono più domande imbarazzanti.

I miei interlocutori mostrano una grande difficoltà ad ammettere il proprio limite e il proprio peccato, si mettono una maschera e si adeguano all’ipocrisia di un mondo che punta tutto sull’apparire, anziché sull’essere. Hanno perso il senso del peccato?

Tutta la mia teologia è improntata sull’Incarnazione di quel Dio che viene in mezzo a noi per divinizzarci, per cui non faccio altro che parlare della nostra bellezza, degli anticipi di fiducia e dell’eterno peso di gloria che è riservato in Cielo a chi costruisce sulla terra angoli di paradiso. Per evitare che questa mia impostazione sia eccessiva e illuda un po’ i miei uditori, Dio mi ha messo accanto mio fratello GianCarlo, quale provvidenziale voce critica e stimolo a evitare errori troppo grandi, legati a una visione eccessivamente positiva dell’essere umano. Benché abbia due anni meno di me, da sempre si preoccupa di applicare rigorosamente (come negli antichi monasteri) la correzione fraterna: senz’altro utilissima, anche se non sempre piacevole, perché in tutti noi c’è quel “pizzico” di orgoglio che non rende gradita l’osservazione, specialmente se le osservazioni sono plurime in una stessa giornata, sia dette a voce che inviate per e-mail.

Prima di riportare quanto mio fratello mi invita a correggere nella mia vita, vale la pena sentire quello che Benedetto XVI ha scritto per la Quaresima 2012: «La carità ci insegna che non abbiamo verso l’altro solo una responsabilità per il suo bene materiale, ma anche per il suo bene morale e spirituale. Non possiamo tacere che una certa ideologia che ha esaltato i diritti dell’individuo può avere come conseguenza l’isolamento della persona e la sua solitudine». Per rompere il cerchio della solitudine e spezzare le maschere che noi spesso ci costruiamo il Papa parla della correzione fraterna a livello individuale e sociale: «Lasciate che alla luce della correzione improntata alla verità e alla carità legga anche l’azione della Chiesa verso il mondo contemporaneo. La Chiesa è mossa da sincera cura per il bene dell’uomo concreto e di questo mondo. La sua azione si ispira non alla condanna o alla recriminazione, ma a quella giustizia e misericordia che deve avere anche il coraggio (parrêsia) di chiamare le cose per nome. Solo così si illuminano le radici del male che non mancano di affascinare anche le menti dell’uomo moderno. Questo suo compito si chiama missione profetica».

La missione profetica di illuminare le radici del male che ci sono anche in me ha portato mio fratello a scrivermi questa e-mail che sintetizzo, senza cambiare una parola, nella speranza che serva pure ad altri a riconoscere che, se io non sono il mio peccato, devo pure ammettere i miei limiti e rendermi conto che quando punto un dito contro gli altri ne punto tre contro di me. Chiaramente, tutto quello che mio fratello dice di sé, serve per il mio quotidiano esame di coscienza: “Batte la sella per far capire all’asino”.

«…in pubblico, come gli abiti da sera, siamo tutti rilucenti, ma in privato, in noi stessi, nei rapporti familiari siamo la nostra realtà vera. E sulla nostra realtà siamo sempre tentati di mettere una bella maschera. Il cristiano è colui che sa di essere peccatore. Conosce e desidera il bene, ma sa di essere impastato di terra, fragile e malato, e per questo bisognoso dell’aiuto e del perdono di Dio.

Un uomo non può negare la realtà che comprende anche la sua fragilità dolorosa, perché in quel caso la sua vita diventerebbe una finzione e quindi sarebbe semplicemente inutile e sprecata.

Il cristiano non può presentarsi alla Chiesa e al mondo come la realizzazione di un modello ideale e astratto. Deve avere un modello ideale, ma non può imbellettarsi per apparire quello che non è ancora, per illudersi e illudere di essere già corrispondente a quel modello verso il quale è solo in cammino. Non può evitare la componente scura e faticosa con cui ogni essere umano deve fare i conti giorno dopo giorno ( mi sembra che solo la Madonna sia stata esonerata dal peccato originale, nessun altro).

Se una persona rifiuta di vedere il dato oggettivo perché è brutto, allora lo negherà, cercherà in ogni modo di rimuoverlo, nasconderà la testa sotto la sabbia e il diavolo la divorerà, come fa il leone con lo struzzo: no, la via della salvezza parte dalla carne sulla terra e solo dopo va nei cieli.

Padre Häring dice che se mi rifiuto di vedere il mio limite e il mio peccato e cerco di essere santo subito, divento una bestia.

La prima e indispensabile condizione della guarigione è la corretta diagnosi della malattia. È indispensabile che io la veda, la riconosca, la accetti con umiltà. Non è necessario che io vada nelle piazze a dire che ho violato i comandamenti e che ho tutti i vizi capitali. I giovani fiutano subito se uno è in cammino faticoso e fecondo o se invece fa teatro: e chi sente la commedia se ne va amareggiato, non è certo affascinato. Affascina chi è autentico e quindi diventa il faro di cui dice San Paolo.

Nel momento in cui accetto l’esistenza della mia fragilità o debolezza o limite o peccato, ecco che queste realtà smettono di farmi paura. Il peccato non è più quel mostro che mi trascina in incubi, ma è il nemico con cui devo lottare, consapevole che, se combatto il male, lo saprò dominare, con l’aiuto della grazia.
Nel momento in cui lo riconosco, non lo temo, gli tolgo potenza e sono io più forte.

Diversamente io mi costruisco la parodia della santità e dello spirituale: sono una maschera che va bene solo per il carnevale. La santità non può sfuggire al vedere e vivere la vita reale, ma passa attraverso l’incarnazione (perché altrimenti Cristo si sarebbe incarnato?). E nel mistero dell’incarnazione, è compresa la discesa agli inferi, dove è il regno della morte.

Ma la morte che noi temiamo è quella dell’uomo vecchio, e non è la morte vera. Anzi quella morte è ciò che fa spazio alla vita. Siamo terrorizzati dalla morte apparente perché crediamo che sia morte vera.

L’uomo vecchio resiste come furia alla conversione perché sa che è lui che muore
per lasciar nascere l’uomo nuovo: Cristo che vive in me».

E tante, tante altre cose mio fraello mi ha scritto: non le trascrivo per non suscitare il dubbio che il vero prete della famiglia sia lui…

Più volte ho scritto sulla necessità di “battezzare” il nostro peccato, per convertirlo in un’ulteriore occasione di grazia. Oggi propongo a me stesso e a chi amo di meditare sul fatto che ogni falsità è una maschera, e per quanto la maschera sia ben fatta, si arriva sempre, con un po’ di attenzione, a distinguerla dal volto. Più presto si toglie, più pienamente godremo del dono della libertà. Non avvenga per noi di passare la vita come un ballo in maschera, dove soltanto alla fine tutti si scoprono il volto e si riconoscono le persone. La maschera è l’uomo vecchio. L’accettare la correzione fraterna fa nascere l’uomo nuovo, umilmente fiero dei suoi piedi per terra, perché il cuore già gusta “cieli nuovi e terra nuova”.

Valentino