Vocazione a costruire un mondo di giustizia. Oscar Arnulfo Romero.

Il mio nome è Oscar…

Sono nato in una modesta famiglia, a Ciudad Barrios di El Salvador nel 1917. A dodici anni ho fatto l’apprendista falegname, ma dopo un anno entrai in seminario. Ordinato prete nel 1942, ho avuto l’incarico di parroco, direttore della rivista ecclesiale Chaparrastique e del seminario interdiocesano di San Salvador.
Nel 1967 sono stato nominato vescovo di Tombee e solo tre anni dopo vescovo ausiliare dell’arcidiocesi di San Salvador, della quale divenni arcivescovo nel 1977. Agli occhi di molti sembravo una persona che non avrebbe creato problemi allo Stato, perché non m’interessavo di politica e andavo d’accordo con chi “contava” nel campo politico e sociale.

Ma presto la triste situazione dei poveri, i quotidiani omicidi dei contadini e degli oppositori del regime politico, i massacri compiuti da organizzazioni paramilitari di destra – protetti e sostenuti dal sistema politico – suscitarono in me una radicale “conversione”. Da “uomo di studi” e “conservatore” passai a una pastorale aliena dal compromesso, non limitata al campo spirituale.

Cominciai a predicare contro la separazione dello spirituale dal temporale, del corpo dallo spirito, della vita terrena da quella eterna. Alzavo la voce per denunciare le ingiustizie e lo facevo con una forza tale che le mie parole facevano presto il giro del mondo, ottenendo consensi utili per aiutare i salvadoregni: «Nella ricerca della salvezza dobbiamo evitare il dualismo che separa i poteri temporali dalla santificazione». E ancora: «Essendo nel mondo e perciò per il mondo (una cosa sola con la storia del mondo), la Chiesa svela il lato oscuro del mondo, il suo abisso di male, ciò che fa fallire gli esseri umani, li degrada, ciò che li disumanizza».

In seguito all’assassinio dell’amico gesuita Rutilio Grande da parte dei sicari del regime, ho aperto un’inchiesta sul delitto e ordinato la chiusura di scuole e collegi per tre giorni consecutivi. Accusai il potere politico e giuridico di El Salvador, e istituii una commissione permanente in difesa dei diritti umani.

Le mie omelie, trasmesse alla radio, mi crearono tanti nemici da parte dei conservatori che mi dipingevano come un “incitatore della lotta di classe e del socialismo”. Sperimentavo sulla mia pelle quello che affermava il vescovo di Recife, Dom Hélder Câmara: «Quando io do da mangiare a un povero, tutti mi chiamano santo. Ma quando chiedo perché i poveri non hanno cibo, allora tutti mi chiamano comunista». 

Non cercavo di imporre la mia persona, non cercavo il mio interesse, non tenevo conto del male ricevuto: solo m’interessava che trionfassero la verità e la giustizia.

Non incitavo alla lotta di classe, ma alla presa di coscienza dei diritti dei poveri. Le mie omelie erano incentrate sull’importanza di essere fedeli alla parola del Maestro: «La parola resta. E questa è la grande consolazione di chi predica. La mia voce scomparirà, ma la mia parola, che è Cristo, resterà nei cuori di quanti lo avranno voluto accogliere». E ancora: «Fratelli, custodite questo tesoro. Non è la mia povera parola a seminare speranza e fede; è che io non sono altro che l’umile risuonare di Dio in questo popolo».

Minacce e intimidazioni si alternavano, ma io non demordevo: continuavo a chiedere udienze al governatore per perorare la causa di tante vittime del sistema. Subii indicibili umiliazioni: ore e ore di anticamera, al punto da trascorrere anche intere notti su una sedia, nella speranza di ricevere udienza da parte dei “grandi”… Grandi che si allearono per eliminarmi: il 24 marzo 1980, proprio nel momento in cui stavo elevando il calice durante l’Eucaristia, fui assassinato dopo aver affermato, durante l’omelia: «In questo calice il vino diventa sangue che è stato il prezzo della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il nostro corpo ed il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza».

La più alta forma di carità

Questo ultimo secolo ha visto più martiri rispetto a tutti i precedenti tempi, dall’origine del Cristianesimo. Si ammazzano i testimoni della fede, si cerca di denigrare e di cancellare il loro ricordo. Si spara al loro corpo, ma… non alle note del loro canto, ai loro ideali, ai loro sogni. Mentre si mette a tacere la loro voce, rifulge sempre di più la loro speranza. Il sangue dei martiri, unito a quello di Gesù, irrobustisce le fondamenta della Chiesa e di una civiltà che deve a Cristo e ai suoi seguaci il suo splendore, i suoi progressi in campo spirituale, culturale e scientifico.

Mentre per questi motivi la Chiesa si apre alla speranza, è non di meno preoccupata per tutte le forme d’ingiustizia perpetrate in troppe parti del mondo: dalla morte per fame di tanti bambini alle guerre combattute un po’ ovunque. Situazioni d’ingiustizia alle quali anche molti cattolici si abituano, diventando così colpevoli del grave peccato dell’“indifferenza fratricida”: non fare nulla contro i mali del mondo e accettare passivamente l’assurdità della morte degli innocenti ci rende omicidi, suicidi e “deicidi”. Ammazziamo quel Dio che è in ogni essere umano, come ci ripete continuamente papa Francesco quando ci addita nel povero, nell’ultimo, nel sofferente la carne stessa di Cristo.

Per queste ragioni la Chiesa elogia chi si dedica alla politica, vivendola come «la più alta forma di carità». Ne era convinto Paolo VI che nel pronunciare questa frase pensava a La Pira, ad Aldo Moro, a Lazzati e a tanti uomini giusti che vivevano la loro esperienza politica come servizio al Paese.

Risposta alla vocazione a essere giusti

Padre, coinvolgici in quella santità proposta dal Concilio, aperta a tutti, con la precedenza non a chi aiuta a morire bene (chi prepara ad una buona morte), ma a chi aiuta a vivere bene, creando condizioni di giustizia e di pace qui, sulla terra.

Cristo, cammina con noi verso la santità basata sulla ricerca del tuo volto sul volto dell’ultimo, al cui servizio troviamo la nostra identità: poveri tra i poveri, alla scoperta di Te che da Dio ti sei fatto uomo, da santo ti sei fatto “peccato”, da ricco ti sei fatto povero per arricchirci del dono della fede.
Spirito Santo, facci comprendere che la santità non è il risultato dell’assenza di peccati, ma della riconoscenza d’essere salvati e aiutati a non cadere d’abisso in abisso. Santi perché ogni giorno ci sforziamo di tornare da capo, “amando la giustizia, amando teneramente e camminando umilmente con Dio”.

Sant’Oscar Romero, i nostri silenzi, le nostre omissioni, le nostre omertà ci impediscono di essere come te, martire della carità e della giustizia. Chiedi a Dio perdono per noi, per non aver meritato noi quella pallottola che ha consacrato il tuo sangue con il sangue di Cristo, versato dal calice mentre lo innalzavi tra cielo e terra.

Valentino