Non chinarsi a raccogliere le pietre (Gv 8,1-11)

Quell’invidia dei “buoni” cattolici. Quando si parla di misericordia, c’è spesso un’alzata di scudi da parte di “buoni cattolici praticanti”, che si ribellano all’idea che altri – da essi ritenuti indegni – vengano trattati un giorno con la stessa bontà che reputano riservata a loro, osservanti della legge divina. Sono simili a Caino che ammazza Abele, invidioso del fatto che Dio prediliga le sue offerte. Sono invidiosi di quel padrone della vigna che paga i lavoratori con la stessa moneta, al tramonto del sole, sia che abbiano lavorato fin dal mattino presto, sia che abbiano faticato una sola ora. Non vogliono prendere coscienza che l’invidia rovina la loro vita, li rende miserabili e indica che non hanno capito di quale privilegio Dio li abbia ricolmati, chiamandoli alla fede fin dall’infanzia.
Miopia e invidia hanno portato i responsabili della comunità fondata da Luca a rigettare il brano dell’adultera (s’inseriva al capitolo 21, versetto 38). Che un padre accolga il figlio che ha consumato tutti i suoi beni con le prostitute, può essere accettato. Ma è eccessivo – pensavano gli anziani della comunità lucana – ritenere che un’adultera non debba essere lapidata, anzi, che debba essere lasciata libera con quel tranquillizzante: «Va’ in pace». Ciò per loro equivaleva ad avvallare e giustificare l’adulterio.

Non riescono i “benpensanti” ad accettare l’idea che le nostre iniquità non siano più grandi della divina misericordia, espressa dall’affermazione di Gesù: «Nessuno ti ha condannata? Neanch’io ti condanno». A lei Cristo non dice: «Non peccare più». Questa è un’aggiunta posteriore, non presente nei manoscritti più antichi.
Grazie a Dio, la comunità fondata da Giovanni – “il discepolo che Gesù amava” – ha “salvato” questo brano, collocandolo all’inizio dell’ottavo capitolo del quarto Vangelo. Era una comunità che credeva nell’amore più che nella legge, e guardava con misericordia a quella giovane adultera. Giovane: infatti, secondo la legge, venivano lapidate le ragazze che avessero commesso adulterio durante il periodo in cui erano in attesa di iniziare la vita matrimoniale. E il tempo della “promessa” andava dai dodici ai quattordici anni. Le donne invece che avessero compiuto adulterio dopo essere passate a nozze, venivano strangolate. Le donne, naturalmente! La legge scritta dai maschi, invece, era molto più misericordiosa nei confronti dei mariti adulteri…

Quanti si rifacevano alla legge per condannare l’adultera hanno mostrato miopia, invidia e ipocrisia. In quale Dio credevano? Nel Legislatore o nel Padre? Nel Dio che punisce o nel Dio cha ama? Nel Giudice che vuole la pena di morte o nel Signore della vita?

«Quale Dio?». Questa è la domanda che avrebbero dovuto porsi gli scribi e i farisei che avevano le pietre in mano per lapidare l’adultera.

È la stessa domanda che dovremmo porci noi, oggi, di fronte al nostro tergiversare sui grandi argomenti che riguardano la vita morale, individuale e collettiva, mentre abbiamo già le pietre in mano per lapidare chi non pensa e agisce come noi.

E Gesù, anche oggi, torna a scrivere per terra. Questo gesto del Maestro è un implicito riferimento a Geremia (17,13): «O speranza d’Israele, Signore, quanti ti abbandonano resteranno confusi; quanti si allontanano da te saranno scritti nella polvere». Saranno scritti per terra. Questo gesto allude al fatto che gli accusatori sono già polvere, sono già morti. A essi Gesù lancia la sfida: «Chi di voi è senza peccato, scagli per primo la pietra contro di lei». E tutti se ne vanno, a cominciare dagli “anziani”, vale a dire dai capi del popolo.
Cadono per terra le pietre, che saranno raccolte per scagliarle contro Gesù, contro Santo Stefano e l’innumerevole schiera di quanti hanno creduto e credono nell’amore misericordioso.

Niente pietre nella nostra bisaccia. Quando si è misericordiosi, si fa del bene e si cerca di mettere in pratica il Discorso della montagna, non ci si deve attendere un’approvazione e – meno ancora – un sentimento di riconoscenza. Chi non accetta l’ingratitudine, non deve cimentarsi in opere buone, perché sarà grandemente frustrato di fronte alla freddezza e all’invidia dei beneficiati. Il giusto sa che lo aspettano le critiche e le maldicenze e il lancio delle pietre. Guai a chi si piega a raccoglierle e a metterle nella sua bisaccia, nell’attesa di lanciarle a sua volta alla persona ingrata o colpevole di maldicenza. La vera sapienza è perdonare.

Il cristiano perdona, non perché i suoi accusatori lo meritino, ma perché sa di meritare lui stesso quella pace che si sperimenta quando ad altri si concede il perdono. Il vero tiranno non è Hitler o Stalin, ma il rancore che una persona cova in sé stessa.

Il cristiano perdona per essere libero da ogni paura di sbagliare, non conoscendo le ferite del suo feritore.

Perdona per testimoniare a tutti che non vale la pena spendere il tempo per cose passeggere, rischiando di non averne per cose essenziali.

Perdona non perché sia un codardo o un ingenuo: sa che ci vuole più coraggio nell’essere misericordiosi che nell’essere vendicativi.

Perdona perché sa di essere stato perdonato da Dio e così può gridare al mondo la gioia di non raccogliere le pietre.

Bernanos e le pietre non raccolte. ll grande scrittore francese ha illustrato quanto sia liberatorio il messaggio di Cristo di non chinarsi a raccogliere le pietre a noi lanciate. Ne parla nel capolavoro Diario di un curato di campagna. È la storia di un sacerdote che non era accettato perché – figlio di alcolizzati, concepito dai suoi genitori in stato di ubriachezza – era considerato un ubriacone. Il conte d’Ambricourt aveva parlato male di lui al suo vescovo, che a malapena lo conosceva. La contessa diceva che quel curato era la vergogna del villaggio. La maestra gli aveva scritto una lettera pregandolo di andarsene. Lui, un santo! Un santo che soffriva per l’indifferenza e la volgarità dei suoi pochi parrocchiani, per la noia che era ovunque palpabile, per l’atmosfera generale appesantita da una tradizione, un linguaggio e una retorica ormai incomprensibili e vuoti di significato.

Lo sostenevano la fede e la convinzione che «il desiderio di preghiera è già una preghiera», assieme al tesoro incommensurabile messo nelle sue mani: il potere di assolvere i peccati. Stupendo ministero del presbitero che «dona una pace che spesso neppure lui possiede in sé».

Visse abbandonato da tutti. Malato e privo di forze, cadde a terra e fu trovato sul pavimento della camera privo di sensi. Morì poco dopo, mentre sussurrava: «Tutto è grazia».

Valentino