Contro il mercante che alberga in noi


Il Dio che non vuole essere ingannato

«Gesù non si fidava di loro, perché conosceva tutti e non aveva bisogno che alcuno desse testimonianza sull’uomo. Egli infatti conosceva quello che c’è nell’uomo» (Gv 2,24-25). Per capire a fondo il messaggio che Gesù vuole darci con l’imbarazzante, sconcertante episodio della cacciata dei mercanti dal tempio, può essere utile iniziare da questi versetti finali di Giovanni 2,13-25. Versetti che possono fare da lente di ingrandimento a questo brano evangelico, che vale la pena meditare solo se si ha il coraggio di pensare a sé stessi, di non puntare il dito verso gli altri. Il coraggio di chiedersi che cosa ci sia nel nostro intimo, che valori abbiamo, che genere di “mercato” alberghi il nostro spirito, che tipo di “mercanti” siamo noi.

«Gesù non si fidava di loro». Si riferisce agli scribi, ai farisei, a quanti comperavano e vendevano nel tempio, a quelli che offrivano sacrifici a Dio con spirito da mercanti, cioè con lo scopo di ottenere dei favori dal Signore o per essere visti da tutti e – quindi – giudicati fedeli alla Legge. La mancanza di fiducia del Maestro nei confronti di queste persone è legata al fatto che esse, potenzialmente, potrebbero compiere grandi cose – non sono forse immagine e somiglianza di Dio? – ma in realtà sono capaci di rovinare il progetto del Creatore di renderci «santi e immacolati di fronte a lui nella carità» (Ef 1,4).

Creati per vivere nell’amore (nell’“agape”: amore verso tutti, compresi i nemici), invece di crescere nelle relazioni fraterne, invece di vedere l’altro come una possibilità di allargare gli orizzonti lo vedono come un concorrente, come colui che limita e porta via spazi vitali. Invece di lasciarsi guidare da leggi eterne, dalla parola di Dio, dal Discorso della montagna, e di vincere l’odio con un supplemento d’amore, danno spazio al loro mercato interiore: prevalgono l’interesse, il successo, il guadagno facile, la vendita e l’acquisto delle armi per salvaguardare diritti discutibili. Il tutto ammantato dalla sacralità di recarsi al tempio per offrire sacrifici al Signore.

Giovanni colloca la cacciata dei mercanti dal tempio proprio all’inizio del suo Vangelo – mentre nei Sinottici l’episodio compare alla fine – per dimostrare che Dio si è fatto uomo, si è fatto come noi per renderci partecipi della sua divinità, per darci vita in abbondanza, sperimentare la gioia di credere e di essere per tutti un dono. A questo scopo ecco entrare Gesù nel tempio: non per “purificarlo”, come qualcuno ama dire. C’è ben poco da purificare! Vi entra con lo scopo di attuare un cambiamento radicale, una rivoluzione, un rovesciamento dei tavoli dei cambiavalute. Per offrire una possibilità di rinascita: «Ecco, io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).


Un progetto, non uno scatto d’ira

Una lettura superficiale del Vangelo potrebbe indurre a pensare che Gesù – poiché, oltre ad essere vero Dio, era anche vero uomo – di fronte all’indecenza di ridurre la casa di suo Padre a un mercato, si sia lasciato vincere dall’ira. Non si tratta di uno scatto d’ira, ma di un progetto e della realizzazione dell’immagine tradizionale del Messia. La sua venuta era così dipinta: un personaggio potente, trionfatore contro i nemici, raffigurato con una frusta in mano con la quale avrebbe dovuto fustigare i peccatori.

Il testo evangelico di San Giovanni è chiaro. Era vicina «la Pasqua dei Giudei». Non dice “la Pasqua del Signore”: il riferimento ai Giudei allude alla grande festa durante la quale migliaia di persone salivano a Gerusalemme, non tutte con la buona intenzione di dare lode a Dio. Gesù entra nel tempio e si costruisce Lui stesso una frusta. Compie un’azione ben meditata. Ciò che noi chiamiamo “frusta” può essere tradotto come “flagello”, con un riferimento al castigo. Castigo di Dio? No! È l’essere umano che, agendo in modo disordinato in tutti i campi – sia nei confronti di Dio che nei confronti del creato – distrugge sé stesso, rovina le relazioni umane e danneggia la madre terra. Si crea la propria tomba, la morte spirituale e penalizza i posteri.

Con questa frusta-flagello Gesù attraversa la spianata del tempio come un torrente che travolge tutto: uomini, animali, tavoli e monete, con l’intenzione di capovolgere ogni cosa. Sembra voler dire che sta iniziando un nuovo tempo: non c’è più bisogno di sacrifici cruenti di animali per dare gloria al Signore. D’ora in poi è il Padre che offre suo Figlio all’umanità. Il suo sangue sparso sulla croce griderà: «Voglio l’amore e non il sacrificio» (Os 6,6).

Gettando a terra le monete dei cambiavalute, Gesù dichiara immondo l’uso di quel denaro che occupa gran parte del pensiero, delle preoccupazioni, delle invidie di tanta gente. Chiaro il riferimento al vitello d’oro, davanti al quale si prostituivano gli Ebrei in fuga dall’Egitto e incamminati verso la Terra promessa. E dicendo ai venditori di colombe: «Non fate della casa del Padre mio un mercato!», dichiara che Dio non tollera di essere oggetto di scambio e di compravendita. Tutto ciò che riguarda il dare per avere, il vendere e il comprare, la pura ricerca dei beni materiali e l’agire per guadagnare dei favori… tutto questo offende, profana e svilisce l’amore. L’amore è gratuito. Non rientra neppure nel campo della meritocrazia. L’amore non si merita. Si accoglie.


Il folle baratto col Signore

Meditando il brano della cacciata dal tempio, si potrebbe essere tentati di puntare il dito contro gli pseudo-innocenti: coloro che adoperano il sacro per interessi personali, per un guadagno privato, per imporsi in qualsiasi modo agli altri, per mettere in luce le proprie buone qualità. In questa categoria potrebbero essere incasellati non solo alcuni sacerdoti, ma anche certi laici che, nelle sagrestie e nelle canoniche, sono più “preti” – in senso negativo – degli uomini deputati al sacro, al rito, alla festa. In questa categoria rientriamo tutti noi quando pensiamo che, andando in chiesa, adempiamo un “obbligo”, anziché rispondere all’Amore con altrettanto amore; quando facciamo un baratto con il Signore, limitandoci a compiere un rito, ad accendere una candela, a chiedere una benedizione «perché… non si sa mai!», e – Dio non voglia! – quando ipocritamente e in modo sacrilego, andiamo a ricevere l’Eucaristia per farci vedere dalla comunità, accarezzando la bara del defunto o stringendo la mano agli sposi! Altro che frusta ci vorrebbe in questi casi!

Gente che baratta, mercanteggia con il sacro e… si prostituisce davanti al dio denaro: questa l’identità dello pseudo-innocente, al quale il Signore grida per mezzo del profeta Isaia: «Io detesto i vostri noviluni e le vostre feste; per me sono un peso, sono stanco di sopportarli. Quando stendete le mani, io distolgo gli occhi da voi. Anche se moltiplicaste le preghiere, io non ascolterei: le vostre mani grondano sangue. Lavatevi, purificatevi, allontanate dai miei occhi il male delle vostre azioni» (1,14-16).

Valentino