Sofferenza vissuta in relazione

“Le periferie del mondo”. È un’espressione cara a papa Francesco, allorché allude a quella povertà che spesso sconfina nella miseria, nei popoli impoveriti. Ma da noi, occidentali, la stessa espressione si può riferire al dolore, alla sofferenza di ogni tipo, fisica, morale e spirituale: la malattia, la mancanza di senso della vita, la perdita della fede. E tra tutte le disgrazie, la peggiore è proprio il non riuscire a credere o il raffreddarsi della nostra fede.

Da anni vado ripetendo un’esperienza che mi è capitata in Nigeria. Una donna stava coprendo con la rossa terra il corpo di suo figlio, Kainde, morto per fame a cinque anni. Le chiesi chi le desse tanta forza nel compiere un rito così straziante che faceva stare male me, prete che invano, con l’aiuto di un’infermiera, avevo cercato di salvare quel piccolo con una flebo. In quel corpo consumato dalla fame, non eravamo riusciti a trovare una vena. E quella madre, senza versare una lacrima, mi rispose: «Padre, se non avessi la fede… Ma io credo. E ringrazio voi missionari che ci avete portato Cristo. Lui basta a riempire la mia vita».

Mentre chi non ha fede, di fronte al dolore rischia d’impazzire, chi ha il dono di credere, nella sofferenza intesa alla luce di Cristo può raggiungere vette sublimi di santità, mentre cresce grandemente in umanità.
La fede opera il miracolo: non ci viene tolta la sofferenza, ma ne scopriamo il senso. Aggrappati a Cristo comprendiamo che Egli non è venuto a cancellare il dolore, ma a prenderlo su di sé per trasfigurarlo, per infondervi qualche cosa di divino, per trasformarlo in un trampolino di lancio verso l’eternità, per dare la forza – e spesso anche la gioia – di continuare a vivere.

L’ho sperimentato ancora una volta, in questi giorni, in Burundi: sono ritornato in quel Paese dopo quarant’anni dalla mia violenta espulsione da quella martoriata terra. In questo periodo il Burundi, ogni volta che fa un piccolo progresso economico, ricade nella guerra fratricida, per cui mai nessun miglioramento è possibile. Eppure la gente sa vivere, non si rassegna al dolore, strappa dalla terra quelle misere erbe che, unite ai fagioli e alle banane, permettono di sopravvivere. Partecipa in massa alla liturgia domenicale e chiede solo spazi per poter danzare.

Domenica scorsa, durante una messa che è durata due ore e mezza, stavo offrendo al Signore – oltre a un disturbo alla pancia… – il “sacrificio” di avere solo fagioli e banane come costante cibo. Ed ecco un ragazzo, durante le preghiere spontanee dei fedeli, rivolgersi così a Dio: «Signore, ti ringrazio che mi vuoi tanto bene, perché posso mangiare tutti i giorni i fagioli e ogni tanto anche due volte al giorno».

L’essere in relazione. Ciò che permette di trasformare il dolore in opportunità è la grazia di non doverlo affrontare da soli, ma di essere in relazione, di vivere di relazioni. Prima tra tutte quella con Dio. L’Infinito si è fatto carne per lasciarsi incontrare, toccare e amare. È passato accanto ai sofferenti toccandoli, come ha fatto con il lebbroso, accettando di diventare legalmente impuro. Ha mangiato con i peccatori, accettando di essere criticato da scribi e farisei come mangione, beone e colpevole delle stesse mancanze di quanti avvicinava. Ha perdonato adultere e prostitute accettando di essere sbeffeggiato quando disse: «Le prostitute vi passano avanti nel regno di Dio».

Ha creato relazioni nuove, insegnandoci che l’“io” è rapporto, che nessuno può vivere da solo, che basta una stretta di mano, una carezza e un raggio di luce negli occhi per dare speranza a chi soffre. Certo: non si può dare agli altri se non se stessi. E gli altri da noi captano soprattutto la nostra fede e il nostro amore.

Se ho incontrato Cristo, se lo tengo vivo nella mia esistenza lo posso donare agli altri, assieme alla mia presenza che crea vita in chi mi aspetta, in chi mi considera amico, in chi attraverso di me intuisce la bellezza di un’amicizia che aiuta ad arrivare all’amore di Dio. Quando poi da Lui ci si sente amati, ogni forma di dolore si relativizza. È quanto è capitato a Giobbe. Lì, sul letamaio, dopo l’iniziale ribellione con parole che sanno quasi di bestemmia, nel dolore, sperimenta che gli basta sapere che Dio continua ad essergli amico: «Prima del dolore io ti conoscevo solo per sentito dire, ma ora i miei occhi ti hanno veduto».

Ed è sempre grazie alla fede e alla presenza di una persona amata accanto a chi soffre che si scopre il senso del dolore, del peccato e della morte: io non sono la mia malattia. Io non sono il mio peccato. Io non sono la mia morte. In ogni situazione, anche nelle più banali ore dell’insignificanza del vivere o nella monotonia del quotidiano, se si rivolgono gli occhi al cielo, entra un raggio di luce che può ribaltare tutto. La luce della grazia.

La luce di un sorriso. La luce della speranza che il Signore non nega a chi porta inscritto sul volto il «sì» a Dio, alla vita e alla mano che accompagna il sofferente.

Il proprio «sì»… Lo stesso monosillabo che ha reso grande Maria, ha cambiato la storia e ha permesso a tutti di iniziare, fiduciosi, il cammino verso l’Infinito.

Valentino