I martiri della fraternità

Più approfondisco le diverse situazioni dei Paesi africani – alcuni dei quali visitati più volte nel corso di 46 anni – più mi rendo conto delle difficoltà di capire culture tanto differenti da quella occidentale. Accanto a tanta bontà verso Dio e verso il prossimo, spirito di sacrificio, capacità di vivere con dignità una sconvolgente povertà che quasi sempre sfocia nella miseria, troviamo inauditi gesti di barbarie, legati a odi tribali e a una memoria che il tempo e la religione non riescono a guarire. Paesi dei grandi contrasti – vissuti con spirito manicheo – e delle grandi virtù, alimentate dal sogno di tempi migliori, magari in terre straniere, dove i più abbienti e quelli che hanno studiato fuggono per migliorare le condizioni economiche dei familiari (e sono i più numerosi) o per evitare persecuzioni da quei capi di stato che, giunti al potere, permettono una guerra civile pur di non lasciare ad altri il governo.

In questi giorni, qui, in Burundi, ho letto la straziante storia dei seminaristi che si sono lasciati uccidere pur di non dividersi secondo le etnie Utu e Tutzi. Martiri della fraternità, assediati per ore nel dormitorio e alla fine falciati dalla mitragliatrice, impugnata da una donna. Quaranta cadaveri di giovani che sognavano il sacerdozio. Giovani dai diciotto ai venticinque anni.

Ho incontrato i tre scampati dalla morte, ma soprattutto il rettore che li aveva preparati a quel presentito momento del martirio. E il rettore mi ha riconosciuto dopo quarant’anni dalla mia espulsione dal Burundi. Ero stato suo docente di filosofia e teologia morale al seminario di Bujumbura. Si ricordava le cose che avevo insegnato, ma soprattutto il metodo del mio insegnamento, magari anche fin troppo idealizzato dopo la mia violenta espulsione dal suo Paese.

Ha visto i cadaveri dei suoi studenti che amava come figli. Stava impazzendo dal dolore, finché un’inspiegabile, provvidenziale pace è subentrata in lui, quando gli hanno detto che i seminaristi erano morti tenendosi per mano, dichiarandosi tutti fratelli e pregando perché Dio perdonasse quelli che li avrebbero ammazzati. Anche lui era ricercato per essere fucilato. Era trincerato in un magazzino del seminario e i colpi di mitragliatrice sulla porta di ferro, anziché permettere che si aprisse, l’hanno bloccata ancora di più. Non solo ha perdonato, ma si è fatto monaco – e vive con dieci novizi – per pregare per chi ha ammazzato i suoi “figli” e per essere sempre e solamente a contatto con il Signore che “muta il mesto incedere in passi di danza”.

Oggi, nel santuario dei martiri, ho parlato ai preti giovani. Ho mostrato come quelle quaranta tombe bianche e quelle immagini sul muro siano molto più eloquenti di ogni nostra omelia.
La mitragliatrice ha spento le loro giovani vite, ma non il canto della loro testimonianza. La mitragliatrice ha distrutto i loro corpi, ma non le note della loro canzone: “Perdonali, Padre, perché non sanno quello che fanno”.

Valentino