Volo verso la Bellezza

Costante cammino verso una meta. Centomila uccelli si radunano per scegliere il loro re ed essere condotti verso la Bellezza assoluta. Si rivolgono all’upupa, che si dimostra disposta a guidarli verso la felicità vera. Non nasconde loro che dovranno passare attraverso molte prove e che il viaggio sarà snervante, irto di pericoli, non scevro da molte tentazioni.

Si mettono in viaggio e attraversano sette valli prima di raggiungere il Simurgh (nome che in persiano indica sia “l’uccello che vive sull’albero dei semi”, sia il numero trenta). Sette valli: la valle della ricerca, dell’amore, della conoscenza, del distacco, dell’unificazione, dello stupore, e infine la valle della privazione e dell’annientamento.

Solo trenta uccelli superano le varie prove. Tutti gli altri cadono sfiniti, cedono alle tentazioni, sono ammazzati dai cacciatori… I trenta raggiungono finalmente il luogo dove vive il Simurgh. Nell’abbagliante Luce, essi si vedono come in uno specchio. Contemplano la loro stessa immagine riflessa e poi sono assorbiti in quella pura Luce.

L’upupa, prima di perdersi nell’Infinito, lascia il suo testamento: meglio vivere cercando e poi scomparire nel Tutto, piuttosto che perdersi nell’insignificanza di giorni monotoni, appiattiti da una vita priva di stimoli, di sfide, vittime di quelle “comodità” che imborghesiscono, rendono indifferenti e tiepidi.
Questa è una mia libera interpretazione dell’opera del sufi persiano Farid al-Din Attar (XII-XIII secolo) Il viaggio degli uccelli verso Simurgh. È una lunga favola esoterica (destinata agli iniziati) sul viaggio che l’anima deve intraprendere dalla materia verso il mistero, verso Dio.

Al di là del modo in cui i musulmani la interpretano, come cristiano io le do un volto, espressione del mio continuo essere in viaggio.

L’upupa: simbolo della sapienza (sàpere = gustare) e del guru, del maestro di vita, dell’amico spirituale senza il quale difficilmente si fanno progressi, in ogni campo. Parlo di amico e non di “padre spirituale” perché «uno solo è il Padre», ha detto Cristo (Mt 23,9). Amico spirituale o confessore fisso, visto sistematicamente una volta al mese, per la confessione di lode.

Il volo – il viaggio – il cammino: metafora di una vita che ha senso per chi cerca, cambia continuamente per arrivare alla perfezione e guarda a Cristo, la cui vita – soprattutto secondo il vangelo di Luca – altro non è se non un viaggio verso Gerusalemme, verso il Calvario, simbolo contemporaneamente di morte, risurrezione, vita nuova.

Le sette valli: le difficoltà che temprano lo spirito, nel viaggio provato dal dolore fisico, dalla sofferenza morale, dalla crisi… Tutte realtà che, per chi sa “vedere” – e vedere è unificare – si trasformano in opportunità. Anche Cristo “imparò dal dolore”, per accrescere quell’amore cantato dall’evangelista Giovanni: «Dio è amore; chi rimane nell’amore rimane in Dio e Dio rimane in lui» (1Gv 4,16).

Il Monte: luogo dell’Infinito, della teofania, oasi per permettere al silenzio di diventare il guardiano della nostra anima (cfr. quanto ho scritto in Follia evangelica sui quattro monti di San Matteo).

Il roveto ardente, il grande specchio luminoso: luogo dove risuona la voce: «Togliti i sandali dai piedi, perché il luogo sul quale tu stai è suolo santo!» (Es 3,5). Frase che ripetiamo in ogni santuario, alla presenza dell’Altissimo. Frase che dovrebbe risuonare in noi davanti alle meraviglie dell’universo. La dovremmo ripetere davanti a ogni essere umano, visto come fratello, anzi, come Cristo stesso. Un antico detto afferma che «la notte passa nel giorno quando, guardando il volto di una persona qualunque, tu riconosci un fratello o una sorella. Fino a quel punto è ancora notte nel tuo cuore».

Monte di morte foriera di vita: lì, sul monte, c’è un’esplosione di luce che è la croce, vista non tanto come causa di morte di Gesù, bensì come espressione massima dell’amore. Cristo, ancora di salvezza: senza di Lui siamo come il giovinetto del Getsemani (l’evangelista Marco) che fugge nudo quando il soldato afferra il lenzuolo con il quale si copriva. Gesù, dono del Padre, quale chiave per aprire la porta del paradiso. Gesù che ci mostra la croce come giogo leggero e peso soave. Gesù, che per bocca dell’apostolo Paolo ci insegna che in noi deve morire l’uomo vecchio, l’“io” ripiegato su se stesso, l’io egoistico. Allora nascerà in noi l’uomo nuovo.

«Ego. Non Christus», dice Nietzche. «Non ego. Sed Christus», dice San Paolo.

L’abbagliante Luce: assorbe l’anima del credente che diventa lui pure luce, diventa Dio. Certo, prima di questa divinizzazione totale (già iniziata qui, sulla terra e che si consumerà in Cielo), bisogna morire e scendere agli inferi, prendere su di sé il dolore umano, passare attraverso le sette valli. Ciò richiede distacco da tutto, per possedere il Tutto. Distacco e sofferenza riscattati da una promessa: «Avrete il centuplo qui sulla terra e poi la vita eterna» (cfr. Mt 10,29).

… Come nella parabola della formica filosofa. Una mattina, uscendo dal suo formicaio, vide il cielo. Era bellissimo, ma non poteva contemplarlo, perché tutte le formiche la spingevano da ogni parte. Di notte sognò quell’azzurro luminoso e disse: «Domani, capiti quello che capiti, mi fermerò a contemplare il cielo». La mattina seguente le formiche la calpestavano continuamente, tanto da renderla paralizzata. Chiese aiuto. Arrivò la responsabile della comunità. Intuì la situazione: «Sventurata, tu non hai prodotto e hai impedito alle formiche di produrre di più. Per te non chiamerò la formica infermiera. Sta’ lì e muori». Sorrise la formica filosofa: «Io muoio, ma ho visto il cielo».

Valentino