Prove d'esame per il Paradiso

Un salvacondotto verso il paradiso? Le letture della messa, nell’ultima domenica dell’anno liturgico 2017 – festa di Cristo Re – provocano contemporaneamente una sferzata di nostalgia e un pugno nello stomaco. Nostalgia del tempo in cui il messaggio rivoluzionario di Gesù ci aiutava a guardare con speranza al futuro, con il desiderio di aiutare tutti i bisognosi, di farci pane per gli affamati e abbraccio per quanti avessero bisogno di un po’ d’amore. Nostalgia di quell’orizzonte di carità immenso, in cui è fiorita la nostra fede cristiana: il sogno di un amore senza limiti; l’aspirazione di voler bene a tutti, sempre e senza mezze misure; la determinazione di essere per tutti un dono.

Pugno … L’invecchiare non porta necessariamente ad essere migliori rispetto alla nostra giovane età e rispetto ai nostri padri che – a cominciare da San Paolo – vedevano il bene, l’approvavano e poi si rassegnavano a battere il petto, constatando i peccati di omissione compiuti nella vita.
Quando giungerà il famoso giorno del giudizio (“Dies irae”), forse neppure quanti saranno chiamati alla destra del Padre – gli eletti, i santi – si sentiranno completamente a posto con la propria coscienza, nel sentire il giusto Giudice elencare le opere di misericordia che troviamo nel 25° capitolo di Matteo…

Comunque, quando compariremo davanti al Signore per l’“esame finale”, non dovremmo avere paura come quando affrontiamo gli esami scolastici con i nostri docenti. Questi possono sempre farci domande inaspettate. Per il giudizio finale, invece, Gesù ci ha annunciato in anticipo su che cosa saremo esaminati: «Avevo fame…». Veramente quel capitolo di Matteo è un salvacondotto per il paradiso. È un supplemento della misericordia della quale, già qui in terra, abbiamo pregustato degli anticipi.

Possiamo leggere tra le righe questa intuizione, nell’intervento fatto da papa Francesco all’Angelus della festa di Cristo Re. Il Pontefice ha mostrato i criteri di appartenenza al regno di Dio: «L’umanità intera è convocata davanti a Lui ed Egli esercita la sua autorità separando gli uni dagli altri, come il pastore separa le pecore dalle capre».

E inizia l’elenco: ho avuto fame e sete, ero straniero… «Questa parola non finisce mai di colpirci, perché ci rivela fino a che punto arriva l’amore di Dio: fino al punto di immedesimarsi con noi, ma non quando stiamo bene, quando siamo sani e felici, no, ma quando siamo nel bisogno. E in questo modo nascosto Lui si lascia incontrare, ci tende la mano come mendicante. Così Gesù rivela il criterio decisivo del suo giudizio, cioè l’amore concreto per il prossimo in difficoltà. E così si rivela il potere dell’amore, la regalità di Dio: solidale con chi soffre per suscitare dappertutto atteggiamenti e opere di misericordia. (…) Alla fine della nostra vita saremo giudicati sull’amore, cioè sul nostro concreto impegno di amare e servire Gesù nei nostri fratelli più piccoli e bisognosi. Quel mendicante, quel bisognoso che tende la mano è Gesù; quell’ammalato che devo visitare è Gesù; quel carcerato è Gesù; quell’affamato è Gesù».

«Mi amavi di più quand’eri giovane». Mi sia permesso confessarmi pubblicamente. Confessione che deve sempre partire dalla lode (“Confessio laudis”). Ringrazio Dio perché mi ha aiutato a vivere, fin dalla giovinezza, molte proposte del Discorso della montagna. Ho pagato, e spesso molto. Ho sempre alimentato il sogno di lavorare con i più poveri della terra. Però (“Confessio vitae”), invecchiando, mi chiedo: ho veramente realizzato quel sogno? Si applica anche a me il rimprovero che il Signore fa al vescovo di Efeso: «Mi amavi di più quand’eri giovane» (Ap 2,4)? Non so. Temo che i confini del mio amore siano risultati più ristretti di quanto pensavo. Non credo di aver realizzato quei gesti di ordinaria pazzia che fanno i santi. E le opere di misericordia corporale avrebbero dovuto occupare un posto maggiore nella mia vita.

Praticamente, mi sono trovato dovunque alle prese con una girandola di impegni. Pur parlando sempre e a lungo d’amore, non è stato facile dedicarmi alla carità “corporale”. Gli studi, le opere da realizzare, i limiti connessi alla vita comunitaria nei seminari – sedici anni come studente e oltre quaranta come docente –, le mille cose che ci sono sempre da fare… tutto ha finito per appesantire le ali della carità spicciola e concreta.

Ed ora (Confessio fidei”) confrontandomi con chi ha praticato pienamente le opere di misericordia, imbarazzato nei confronti di quella “porta stretta” per cui dovrò passare, voglio mettermi frequentemente alla presenza di Gesù, che al momento opportuno mi dirà: «Avevo fame: e tu…? Avevo sete: e tu…? Ero nudo: e tu…? Ero in carcere e ammalato: e tu…? Non avevo un tetto: e tu…?».

Quell’«e tu…?» ogni tanto mi fa arrossire di vergogna …

«Se questi e quelli, perché non io?». Se noi organizzassimo meglio la nostra vita e ci impegnassimo seriamente a realizzarci nel miglior modo possibile, troveremmo tempo e spazio per le opere di misericordia, sia spirituale che corporale.

C’è ancora a questo mondo tanta gente buona, che vorrebbe e potrebbe esercitare le opere di misericordia corporale. Non sempre ci riesce. Farebbe un gran bene! Basterebbe fare il salto iniziale e si troverebbe nel mondo di chi si dedica al prossimo e sperimenta la gioia di lavorare per il bene comune. C’è gente che si realizza facendo del bene. Se qualcuno ce la fa, perché non tutti noi?

Nella famosa parabola del giudizio universale, sia i bocciati che i promossi formulano la stessa domanda, con la medesima sorpresa: «Signore, quando ti abbiamo visto affamato… o assetato…?». E la sorpresa è legata anche al fatto che le opere di misericordia corporale spaziano su un orizzonte più ampio e più profondo di quel che risulta a prima vista. Non c’è un solo tipo di povertà. La fame non è solo di pane, né la sete è solo di acqua. La malattia, la mancanza di lavoro e di un tetto, ogni situazione di sofferenza, indigenza, dolore… la morte stessa meritano una lettura più profonda. Una lettura sostanzialmente serena perché sorretta dalla speranza nella divina misericordia. Serena, anche perché scopriremo di aver compiuto perlomeno un’opera buona. E chi non sa che «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia»?