Dov’è questo Dio?

«“Chiedete ed otterrete”, dice il Signore. Questo non è ciò che io sperimento. Sento Dio lontano. Gli chiedo spesso se è diventato sordo. Lo supplico più che altro di aiutare i miei cari nelle loro sofferenze. Ma l’aiuto non mi viene da nessuna parte. Dov’è questo Dio?».

Dio ha bisogno di noi. Un canto brasiliano abbozza una prima risposta a colui che si aspetta da Dio quello che l’uomo dovrebbe fare:

Dio solo può dare la fede,
tu, però, puoi dare la tua testimonianza.
Dio solo può dare la speranza,
tu, però, puoi infondere fiducia nei tuoi fratelli.
Dio solo può dare l’amore,
tu, però, puoi insegnare all’altro ad amare.
Dio solo può dare la pace,
tu, però, puoi seminare l’unione.
Dio solo può dare la forza,
tu, però, puoi dare sostegno a uno scoraggiato.
Dio solo è la via,
tu, però, puoi indicarla agli altri.
Dio solo è la luce,
tu, però, puoi farla brillare agli occhi di tutti.
Dio solo è la vita,
tu, però, puoi far rinascere negli altri
il desiderio di vivere.
Dio solo può fare ciò che appare impossibile,
tu, però, potrai fare il possibile.
Dio solo basta a se stesso,
egli, però, preferisce contare su di te.

Questo canto riassume le idee espresse in un’antica preghiera del XIV secolo, nella quale si sottolinea che Dio ha solo le nostre mani per continuare a costruire il mondo, ha solo i nostri piedi per portare il Vangelo in tutti gli angoli della terra, ha solo il nostro cuore per amare tutti:

Cristo non ha mani,
ha soltanto le nostre mani
per fare il suo lavoro oggi.
Cristo non ha piedi,
ha soltanto i nostri piedi
per guidare gli uomini
sui suoi sentieri.
Cristo non ha labbra,
ha soltanto le nostre labbra
per raccontare di sé agli uomini di oggi.
Noi siamo l’unica Bibbia
che i popoli leggono ancora;
siamo l’unico messaggio di Dio,
scritto in opere e parole.

Quando una persona mi dice di aver perso la fede a causa di tanto male che c’è nel mondo, quando mi chiede dove sia Dio allorché trema la terra e inghiotte gente che avrebbe tutto il diritto di godersi questa vita in pace, rispondo: «Contro il male del mondo, Dio ha creato te».

Questo messaggio è adombrato dai Padri della Chiesa dei primi sette secoli, ma anche nei tempi moderni troviamo espressioni simili: «Dio tacerà sempre se non gli presti la tua bocca. Dio non agirà mai se non gli presti le tue mani». «Dio ha bisogno di noi! Per poter esprimersi, per poter dare segni della sua presenza, per agire, Dio ha bisogno di noi».

Etty (Esther) Hillesum. A chi soffre perché non sperimenta un aiuto da parte di Dio, si può additare una stupenda intuizione di una martire ammazzata ad Auschwitz: «Se Dio non mi aiuta più, sarò io ad aiutare Dio».
È quanto afferma una scrittrice olandese, nata nel 1914 e morta nel 1943: Etty (Esther) Hillesum, appartenente alla borghesia intellettuale ebraica. Di lei ho già scritto altre volte, ma reputo opportuno ripetermi, per stimolare i lettori ad affrontare questa stupenda figura di donna che ha e avrà un messaggio per ogni stagione della vita.

Il padre era un professore, poi preside di liceo. La madre era di origine russa, scappata dai pogrom (termine storico di derivazione russa: letteralmente significa “devastazione”; si riferisce alle sommosse popolari antisemite – e ai conseguenti massacri e saccheggi – avvenute in Russia al tempo degli Zar). Era una donna passionale, diversa dal marito quasi in tutto: situazione che diede origine ad un matrimonio irto di difficoltà, con continui litigi.

Nel 1932, Etty intraprese gli studi di diritto e di psicologia. Alcuni anni dopo, nel 1940, i nazisti occuparono i Paesi Bassi e iniziarono la feroce persecuzione dei 140 000 ebrei presenti in quella zona.

Etty aveva un carattere passionale. Facilmente si innamorava di una persona, finché diventò l’amante di un uomo molto più vecchio di lei, uno psicoterapeuta. L’inizio della convivenza fu burrascoso. Poi ci fu un consolidamento del rapporto caratterizzato da una serie di paradossi: tanto amore passionale, assieme ad una altrettanto passionale e intensa vita spirituale e di fede. Una fede sganciata dalla religione ebraica e fortemente ancorata in quel Dio che è Padre di tutta l’Umanità.

Grazie alla fede si sforzò di vincere – o per lo meno di controllare un po’ alla volta – tutti gli innamoramenti che viveva con un temperamento possessivo, con un grande desiderio di impossessarsi della persona amata. Affrontava tutto e tutti con un grande ardore, sentendosi interiormente libera, pur nella coscienza di doversi frenare e regolare almeno un po’.

E fu ancora la fede a permetterle di affrontare il tragico momento della guerra senza esserne sopraffatta e dominata, anzi, fu lei stessa a dominare la situazione con una libera scelta: avrebbe potuto mettersi in salvo, aiutata da tanti amici e ammiratori, ma preferì condividere volontariamente la sorte degli altri ebrei, condannati allo sterminio nel campo di concentramento.

Tutti sanno che cosa capitava nei lager. Tutti conoscono gli orrori della guerra. Etty riuscì a rendere meno feroce la guerra e ad addolcire le atroci persecuzioni dei campi di concentramento.
Nel 1942, gli ebrei furono costretti a portare la stella di David; vennero privati del lavoro e della possibilità di accedere ai luoghi pubblici; vennero deportati in massa.

Proprio nel tempo in cui nella stessa zona, un’altra ragazza – Anna Frank – scriveva il suo stupendo diario, anche Etty cominciava a comporre il suo. In esso è bene messa in rilievo la convinzione dell’Autrice: l’unico modo di rendere giustizia alla vita è quello di non abbandonare degli esseri in pericolo, e di usare la propria forza per portare la luce nella vita altrui: «I domini dell’anima e dello spirito sono tanto vasti e infiniti che un po’ di disagio fisico e di dolore non ha troppa importanza, io non ho la sensazione di essere privata della mia libertà e non c’è nessuno che mi possa fare veramente del male».

Siccome la comunità ebraica viveva nel terrore, Etty, cosciente degli immensi doni ricevuti da Dio, si prodigò per essere un dono per tutti: «Mi hai resa così ricca, mio Dio, lasciami dispensare anche agli altri, a piene mani. La mia vita è diventata un colloquio ininterrotto con te, mio Dio, un unico grande colloquio. A volte, quando me ne sto in un angolino del campo le lacrime mi scorrono sulla faccia, lacrime che sgorgano da una profonda emozione e riconoscenza. Anche di sera, quando sono coricata nel mio letto e riposo in te, mio Dio, lacrime di riconoscenza mi scorrono sulla faccia e questa è la mia preghiera».

Nel mondo c’è tanto dolore? Etty risponde al male con il bene, invitando tutti a diventare balsamo per le tante ferite che affliggono l’umanità. Anche perché il male del mondo, secondo l’Autrice, rispecchia il marciume che c’è in ognuno di noi. Perciò, è priorità assoluta per tutti convertire se stessi, cercare dentro di sé i mezzi necessari per portare la pace nel mondo, che sarà il risultato della pace che creiamo dentro di noi.

Tutto ciò è la premessa per rendere possibile l’intervento di Dio nel cammino di redenzione di questa umanità. Redenzione che avverrà se noi faremo la nostra parte.

Ed ecco il cuore del Diario di Etty, che così si rivolge a Dio: «…cresce la mia certezza: tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare te…».

Come? Portandolo agli altri. Con Lui, il campo di concentramento non è più una prigione, ma una opportunità per diventare liberi dentro. La prigione può convertirsi in un campo di vittoria. Ovunque noi siamo, anche nella più buia reclusione, dobbiamo credere che sopra di noi c’è il cielo. E nel cielo e dentro ciascuno di noi c’è Dio, che ci dà la forza di diventare grandi, facendo il bene anche a chi ci fa del male: «A ogni nuovo crimine o orrore dovremo opporre un nuovo pezzetto di amore e di bontà che avremo conquistato in noi stessi. Possiamo soffrire ma non dobbiamo soccombere».

Etty, derubata di tutto, ma non del sogno di un futuro migliore, passò gli ultimi tempi della sua vita aiutando gli altri a scoprire che anche il campo di concentramento non doveva essere considerato un luogo di totale sconfitta, perché chi è libero dentro trasforma il dolore in grandezza morale.

Certo, pure lei visse dei momenti molto brutti. Cercava di superarli lavorando per gli altri. Lo confessò candidamente in una pagina del diario, là dove descrisse il modo in cui reagì alla disperazione creata da un’orribile situazione. Sia pure inondata di lacrime si disse: «Ora preparo la tavola».

Questo il suo modo di essere balsamo per i connazionali – come lei condannati a morte – e di concretizzare l’intuizione: «Se Dio non mi aiuta più, sarò io ad aiutare Dio».

Valentino