Nikë Prela: un dono per tutti, fino al martirio

Perdono: profumo del Cristianesimo. Un’immensa folla, composta da kosovari, albanesi e serbi, partecipa al rito di riconciliazione. Tre gruppi di persone collocati su colline adiacenti. Il primo gruppo, al centro, è costituito da guide e autorità di diverse religioni; il secondo dalla famiglia estesa che ha subito un omicidio; il terzo dalla famiglia estesa dell’assassino. Dal gruppo che ha subito un’offesa, si avvicina ai leader religiosi la madre dell’ucciso, tenendo in mano un pane bianco. Dall’altro gruppo, l’assassino raggiunge la donna con un coltello in mano. Incidendosi il braccio, intride il pane con alcune gocce del suo sangue. La madre mangia questo pane, abbraccia l’assassino, e con questo gesto non solo lo perdona, ma lo adotta come figlio. Immenso il tripudio di gioia del terzo protagonista: il popolo partecipe.

1275 casi di riconciliazione e di perdono sono registrati nella storia recente del Kosovo. Uno dei più meritevoli protagonisti di questa opera di riconciliazione è il vescovo Nikë Prela, del quale scrivo con sofferta gioia – si tratta di un amico – per rompere quel silenzio nel quale il regime comunista ha voluto oscurare la santità di un grande martire. Un santo che, forse, non sarà innalzato agli onori degli altari in quanto espressione di una Chiesa povera, timorosa, e probabilmente non ancora cosciente della sua grandezza. Su di lui ho scritto un libretto: Nikë Prela: dono per i cristiani e i musulmani.

Quando, nel 1985, incontrai Madre Teresa di Calcutta, mi parlò della sua martoriata terra – il Kosovo – e mi fu di stimolo a cercare contatti, per conoscere e far sapere all’Occidente ciò che là stava avvenendo. Questa grande santa, figlia del Kosovo, è simbolo, forza e anima del perdono e della riconciliazione della sua gente. La sua “profezia” può essere così sintetizzata: non dobbiamo ripiegarci sulla nostra personale sofferenza, ma cercare di sublimarla, grazie alla condivisione del dolore altrui. Questa concezione di vita ha avuto un benefico impatto sui kosovari che da lei, dal vescovo Prela e dal presidente Rugova hanno sperimentato che, per poter fermare la spirale di odio senza fine, non ci sono altri mezzi all’infuori del dialogo, del perdono, della riconciliazione e… del martirio.

Tutta la vita un continuo martirio. Nikë nasce da famiglia albanese nel 1918. Viene ordinato sacerdote nel 1941, durante la seconda guerra mondiale. Si distingue per il suo coraggio e il suo amore per la gente comune, nelle parrocchie del Montenegro. A Sarajevo viene consacrato vescovo del Kosovo: ministero che il regime comunista fa di tutto per ostacolare, creando assurde diffamazioni per poterlo processare e condannare.

Nikë trascorre in carcere complessivamente nove anni, vittima di varie torture. A volte in cella con quindici, venti persone, senza letto. Spesso, il cibo consiste in pane e acqua. A volte è recluso in una cella di quattro metri quadrati, senza finestra, da solo o “in compagnia” di un prigioniero scelto con il criterio di un’antipatia da parte dell’uno o dell’altro. Il pane buttato per terra dai carcerieri, tra gli escrementi. Da questa cella è richiamato ogni sabato mattina, con la minaccia della fucilazione: per diverse ore sta davanti al plotone d’esecuzione, con l’accusa di tentativo d’indottrinare gli altri carcerati e di essere una spia.

Viene trasportato da una parte all’altra del carcere con gli occhi bendati, mentre egli prega Cristo, perché Lui e Lui solo sia la sua vera luce e la forza d’amare i persecutori. Ciò gli dà la gioia di sentirsi appartenere esclusivamente al Signore. E quand’è legato mani e piedi, pensa a quanto egli sia fortunato perché è ancora in vita, mentre Gesù fu messo in croce.

Nella fossa biologica. Ogni tanto viene a trovarlo sua madre, per portagli un po’ di cibo e qualche vestito. In una giornata freddissima, Nikë sta pulendo una fossa biologica, sotto la neve che rende fradici i poveri stracci di cui è ricoperto. Gli dicono che c’è sua madre. Egli non vorrebbe essere visto da lei in quello stato tanto umiliante. Ma gli sguardi di madre e figlio s’incrociano. «In quel momento, nello sguardo di mia madre, ho rivissuto l’incontro tra Maria e Gesù sulla via del Calvario. E ho capito quanto avrà sofferto la Madre… Le due madri!», scriverà poi. Sua madre, per pudore abbassa lo sguardo. Non lo saluta neppure. E se ne va, con il suo carico di dolore, lasciando alle guardie quanto ha portato per il figlio.

Ella, più tardi, confesserà a Nikë: «In quel momento ebbi la sensazione che tu fossi Gesù e io, Maria. E in quello sguardo, dicendo nulla, ci siamo detto tutto».

Costante preghiera per i nemici. Tra le atroci sofferenze del carcere, Prela è di grande conforto morale e spirituale per tutti i carcerati che, quando vengono condannati a morte, gli chiedono di pregare per loro e per le loro famiglie. Ed egli non cessa mai di pregare, non tanto per parenti, amici e benefattori, ma soprattutto per i nemici, perché «quelli che ci odiano ci fanno assomigliare sempre più a Gesù. Dobbiamo ringraziare quelli che ci fanno del male, perché questo “grazie” penetra direttamente nel cuore di Dio».

È convinto che dolore e sacrificio abbiano un preciso senso, facilmente colto dall’uomo di fede, come dice a Madre Teresa, quando gli fa visita nel 1980: «Abbiamo tutti un cammino da percorrere: il sacrificio e la croce di Cristo, accompagnato dall’amore, senza del quale il dolore ci distrugge e rende schiavi… Il venerdì santo non è l’ultima parola di Cristo. L’ultima parola è pasqua».

Umanamente parlando, potremmo dire che tutta la sua vita sia stata un venerdì santo, caratterizzato da gravi sofferenze morali e dalla salute distrutta durante gli anni del carcere. Lo stare immobile nella cella della prigione gli causa la paralisi di una gamba, che gli viene amputata in un ospedale di Bergamo: questo mi ha dato la possibilità di testimoniare con quanta dignità affrontasse il Calvario della sofferenza fisica, offerta al Signore per la sua diocesi.

Anticipo di “pasqua” per lui è la delegazione parlamentare, ecclesiale e del volontariato guidata da GianCarlo Salvoldi, in occasione del venticinquesimo della sua ordinazione episcopale. È la prima volta che Chiesa e stato si accorgono di lui. Mai nessun vescovo gli aveva fatto visita, per farlo sentire Pastore legato alla Chiesa universale. Quando arriviamo nella sua diocesi, abbracciandomi, piange di gioia e mi sussurra: «Ora lascia, Signore, che il tuo servo vada in pace».

Valentino