Dietrich Bonhoeffer: «È la fine, per me l'inizio della vita!»

«Se ho parlato male, dimostrami dov’è il male.
Ma se ho parlato bene, perché mi percuoti?» (Gv 18,23).

Assieme a Bernhard Häring avevo scritto e parlato più volte della nonviolenza. Häring portava la sua testimonianza dei quattro processi subiti al tempo di Hitler e dai quali era sempre risultato innocente, grazie alla sua dialettica e alla capacità di passare da accusato ad accusatore. Il mio padre e maestro, comunque, lasciava intendere che il Führer doveva essere spodestato. Quando gli chiesi: «Con quali mezzi, visto che parli sempre di nonviolenza?», mi rispose citando Bonhoeffer: «Quando un pazzo lancia la sua auto sul marciapiede, io non posso, come pastore, contentarmi di sotterrare i morti e consolare le famiglie. Io devo, se mi trovo in quel posto, saltare e afferrare il conducente al suo volante». Salvare altre vite, disposto a perdere la propria. Questo è quanto è capitato a Bonhoeffer.

Dietrich (Breslavia, 1906 – Flossenbürg, 1945), vive a Berlino, in una famiglia nobile e agiata, e sin da ragazzo si mostra determinato a diventare pastore evangelico. Già dottore in teologia a 22 anni, insegna come libero docente presso l’Università di Berlino. Nel 1933, salito al potere Hitler, lascia da parte la prospettiva di una brillante carriera accademica, reputa la Chiesa protestante tedesca troppo legata al potere e aderisce alla “Chiesa confessante”, che si dichiara non collaborazionista con il nazionalsocialismo. Intraprende molti viaggi all’estero, ovunque molto apprezzato. Tanti gli diventano amici e sono disposti a tenerlo con sé quando vengono a conoscenza delle accuse a lui mosse dal regime nazista. Ma egli vuole stare accanto al suo popolo nell’ora della tremenda prova.
Il 5 aprile 1943 viene arrestato dalla Gestapo e rinchiuso nel carcere di Tegel. Anche dal carcere riesce a collaborare per un attentato contro Hitler. Ma, fallito questo tentativo, perde la speranza che la Germania possa essere liberata dal Führer in tempi brevi. L’anno successivo viene trasferito in un carcere più duro, dal quale riesce a scrivere bellissime lettere che saranno poi pubblicate con il titolo Resistenza e resa.

Gli viene offerta la possibilità di fuggire dal carcere, ma nel frattempo il fratello e il cognato sono arrestati e Dietrich, per evitare che i suoi familiari subiscano ulteriori persecuzioni, rifiuta la proposta di salvare la sua vita. Hitler pospone la condanna a morte del pastore teologo, sperando di strappargli informazioni utili a eliminare altri nemici. Di fronte alla sua totale non collaborazione, lo manda nel campo di concentramento di Flossenbürg dove viene impiccato. Il medico che assiste alla sua morte lo vede concentrato nella preghiera e dichiara che non ha mai visto alcun condannato andare incontro alla morte con tanta serenità e dignità.

Il martirio di Bonhoeffer si ascrive nell’ambito di una fede vissuta come concreto impegno nella storia. Seguendo la logica evangelica, chi ama Dio ama anche tutti quelli e tutto ciò che il Signore ha creato. E non li ama in vista di una ricompensa eterna, né per creare il regno di Dio in Cielo, ma per renderlo presente già qui sulla terra. Non amare concretamente questi fratelli, non salvarli dalla morte, permettere una politica pagana, antisemita, razzista è un crimine indicibile. Criminali il silenzio e l’omertà… proprio come aveva affermato Martin Luther King: «Non ho paura della cattiveria dei malvagi, ma del silenzio degli onesti». Il silenzio, cioè, di chi sapeva come si svolgevano gli avvenimenti del suo tempo e non ha fatto nulla per opporsi alle ignominiose morti.

Essere nonviolenti non significa essere rassegnati, accettando insulti e ingiustizie. Del resto anche Cristo, il prototipo della nonviolenza – al punto da invitarci a porgere l’altra guancia a chi ci percuote – quando è stato schiaffeggiato durante la sua passione non ha accettato passivamente lo schiaffo, né si è prestato a porgere l’altra guancia, ma ha chiesto una giustificazione.

Dietrich vede Dio nel corpo del martoriato fratello. Fa di tutto per salvarlo. Al Cielo chiede aiuto per essere sostenuto nel suo impegno per la giustizia, animato da questa intuizione: il credente deve agire «come se Dio non ci fosse». Vale a dire: mentre sta attaccato al Signore, agisce come se lui solo fosse responsabile della salvezza di chi è nel bisogno. Non invoca un Dio che intervenga in modo miracolistico (“deus ex machina”) o un “Dio tappabuchi”: sa che tocca a lui essere il Dio che salva il fratello. Sa anche che il Signore si aspetta non solo di essere servito nei fratelli, ma di essere lui stesso aiutato, come magistralmente ha scritto un’altra martire del nazismo, Etty Hillesum: «Una cosa, però, diventa sempre più evidente per me, e cioè che tu non puoi aiutare noi, ma che siamo noi a dover aiutare te, e in questo modo aiutiamo noi stessi. L’unica cosa che possiamo salvare di questi tempi, e anche l’unica che veramente conti, è un piccolo pezzo di te in noi stessi, mio Dio. Forse possiamo anche contribuire a disseppellirti dai cuori devastati di altri uomini».

Dietrich crede nel Signore e crede nell’uomo al quale cerca di far capire che, nella presente generazione, il Dio che qualche decennio fa sembrava morto – sepolto dall’oblio dell’uomo evoluto – è ancora vivo, più vivo che mai. Ma con quale volto? Non certo quello di una religione rappresentata da persone che non vivono a fondo la loro fede, non la concretizzano con le opere di giustizia e si creano una religiosità “fai da te”.

Kierkegaard ha scritto: «La nave è in mano al cuoco di bordo e ciò che trasmette il megafono non è più la rotta, ma ciò che mangeremo domani». «Al giorno d’oggi la gente sa il prezzo di tutto e non conosce il valore di niente» (Oscar Wilde). Si fanno avanti i ciarlatani televisivi e tacciono i maestri, quelli che dovrebbero insegnarci il sublime messaggio di Bonhoeffer: «Dio è impotente e debole nel mondo e appunto solo così egli ci sta al fianco e ci aiuta. (…) La Bibbia rinvia l’uomo all’impotenza e alla sofferenza di Dio, solo il Dio sofferente può aiutare».

Il volto di Dio che ci può salvare è quello di Gesù Cristo. Un Dio che tace, affinché noi parliamo. Un Dio che si fa debole, affinché noi siamo forti. Un Dio che si nasconde, affinché noi diventiamo grandi nel cercarlo nell’alto dei Cieli, per poi trovarlo sul volto del più piccolo dei nostri fratelli, sul volto di chi soffre.

Bonhoeffer sarebbe stato perfettamente in linea con quanto scriverà un anno dopo la sua morte un altro pastore protestante, teologo, il giapponese Kazah Kitamori: «Il dolore è la natura nascosta di Dio». Dolore assunto da Dietrich per “completare nel suo corpo quello che manca alla passione di Cristo”, come aveva scritto San Paolo.

È così che sale il patibolo, per trasformare la fine nell’inizio della vera vita.

Valentino