Andrea Santoro: una porta sempre aperta

«Io sono infatti persuaso che né morte né vita…
potrà mai separarci dall’amore di Dio,
che è in Cristo Gesù, nostro Signore» (Rm 8,38-39).

Come ogni vita, così ogni morte ci appartiene. Risulta perciò sempre doloroso parlare di un fratello che per amore di Cristo si è lasciato ammazzare, pur di non perdere la fede o per ridare dignità a chi ne è stato derubato. Ma indicibile è la tristezza se il martire è un amico con il quale si è fatto un lungo percorso assieme, fianco a fianco, per tutto il periodo di formazione al ministero sacerdotale.

Andrea e io: stesso ideale, stessa passione per la preghiera, stessa determinazione di fare una scelta radicale spendendo la propria esistenza in terra di missione, dove sarebbe stata più evidente la volontà di essere per tutti un dono, spogliandoci del superfluo per rivestirci solo di Cristo.

Stesso carattere, tutt’altro che piacevole e simpatico, anche perché forgiato sulla radicalità evangelica, sulla non sopportazione delle mezze misure, su quel “manicheismo” che fu un po’ anche dell’apostolo Giovanni, espresso soprattutto là dove dice a nome di Dio: «Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca» (Ap 3,15-16).

Così ero io da giovane (…e l’invecchiare non aiuta molto a migliorare), così era Andrea Santoro (1945-2005). Basti un esempio: sia a lui che a me, sembrava tempo sprecato quello trascorso giocando al pallone con i compagni di classe; di conseguenza, durante la ricreazione, passeggiavamo nel bellissimo parco del Seminario Romano discutendo, pregando un rosaio in più perché il Signore ci aprisse la via della missione e criticando le lentezze della Chiesa: erano gli anni del Concilio Vaticano II, che produceva documenti bellissimi, molto al di sopra di quanto la comunità ecclesiale fosse capace di testimoniare.

Capitò che, terminati gli studi, io ebbi subito l’incarico di insegnare in Nigeria, mentre Andrea dovette attendere venticinque anni prima che il suo sogno si potesse avverare. E quando ritornavo dall’Africa e, passando per Roma, per lo meno lo chiamavo al telefono, monotono era il suo ritornello: «Comodo per te stare in Africa, anziché stare qui a tirare il carro come devo fare io!». E quando gli suggerii di entrare in un istituto religioso, prontamente mi provocò: «Perché? Non esiste più per te la virtù dell’obbedienza?».

Quanto ho detto serve a sottolineare il fatto che i santi, i martiri non sono degli eroi, dei superuomini: sono dei peccatori che, convinti di esserlo, non si adagiano nel loro peccato, si confessano di frequente (Andrea e io seguivamo il consiglio di confessarci due volte per settimana), sanno che è normale sbagliare per gli esseri umani. E, se arrivano ad un gesto eroico come l’affrontare il martirio non è perché non hanno peccato, ma perché ogni giorno si sono sforzati di tornare da capo, di impegnarsi a vivere meglio, di affrontare un’altra giornata con il desiderio di stare attaccati al Signore.

Il profilo umano di don Andrea si intreccia con quello spirituale; le sue scelte di vita con le circostanze della morte; l’amore per la Chiesa che lo ha generato alla fede, con la predilezione per i luoghi in cui il Cristianesimo ha avuto le sue origini.

Era diventato sacerdote nel 1970. Subito designato per il ministero comune ai preti romani: vicario parrocchiale nella parrocchia dei Santi Marcellino e Pietro al Casilino e poi in quella della Trasfigurazione. In seguito, parroco della parrocchia di Gesù di Nazareth e finalmente di quella dei Santi Fabiano e Venanzio, fino all’Anno Santo del 2000. Innegabile il bene da lui compiuto in queste comunità, sempre con la scelta preferenziale per i poveri. Ma sempre vivendo con quella “santa” – per qualcuno “strana” – inquietudine che lo portava ad insistere prima con il cardinale Poletti, poi con il cardinale Ruini perché potesse lasciare Roma e dedicarsi a nuove esperienze che gli permettessero di “portare frutto” (cioè, secondo la mentalità biblica: pregare e far pregare). Voleva vivere in Turchia, nell’Anatolia, per essere una presenza credente e amica, favorire uno scambio di doni – anzitutto spirituali – tra l’Oriente e Roma, tra cristiani, ebrei e musulmani.

Cominciò così la sua presenza in terra di missione. E l’inizio fu veramente sorprendente: aveva aspettato venticinque anni prima di partire e, avuto il permesso, fece praticamente due anni di deserto, non solo per studiare il turco ma per pregare, girando sempre con la sua Bibbia sotto il braccio. Come San Paolo: dopo l’esperienza di fede sulla via di Damasco, si ritirò per tre anni a pregare nel deserto dell’Arabia. Don Andrea «pose la sua tenda» ad Urfa, vicino alla località biblica di Harran, la terra di origine del Patriarca Abramo. Era felice, pur nella grande solitudine. Felice, testardo come era, di essere riuscito ad ottenere un posto in cui potersi muovere sulle orme di Cristo, appartenendo tutto a Lui nella preghiera. Poteva finalmente ripetere con San Paolo: «Per me infatti il vivere è Cristo e il morire un guadagno» (Fil 1,21).

Viveva poveramente. Rigoroso con sé e con chi incontrava. Non immune da sbagli: quando, dopo la sua uccisione, mi recai in Turchia per raccogliere testimonianze (che poi riportai nei libri Una porta sempre aperta e La steppa attraversata con amore), stando un po’ di tempo con il suo nuovo vescovo – Luigi Padovese –, assieme agli immancabili elogi raccolsi anche testimonianze critiche, proprio in linea con il carattere già descritto.

Purtroppo, poco dopo l’assassinio di don Andrea, pure il suo vescovo verrà ammazzato. Lui pure santo, capace di vedere luci e ombre sue e degli altri, senza nasconderle. Nelle lunghe conversazioni soprattutto notturne, più volte si abbozzava chiaro il suo messaggio: chi va in un Paese musulmano come testimone del Vangelo deve mettere in conto la possibilità del martirio. Pensava al suo eventuale martirio e a quello di Andrea, per il quale affermò: «Una testimonianza esemplare di umanità e di fede, la sua, che ha dato nuovo vigore alla Chiesa in Turchia, anche se c’è un’esigenza di verità da colmare e molte ferite restano ancora aperte. (…) molto resta ancora da fare perché in questo Paese la libertà di coscienza e i diritti dell’uomo trovino l’accoglienza che meritano in un Paese che ambisce a entrare nell’Unione Europea (…) Chi ha voluto cancellare la presenza fisica di don Andrea non sa che ora la sua testimonianza è più forte». Proprio per queste ragioni, Andrea decise di diventare parroco della piccolissima comunità di Trebisonda, che contava solo nove cattolici e alcuni ortodossi. Grandi i problemi dell’emigrazione e della prostituzione, per combattere la quale si attirò l’odio di molti. Non poteva poi mancare l’accusa di essere in Turchia per fare proseliti, addirittura pagando per attirare i musulmani alla Chiesa cattolica…

Don Andrea Santoro visse con la porta sempre aperta a Dio e ai fratelli di ogni credo religioso. La sua esistenza è parte di una storia sacra che continua, che si incarna in ogni nostro atto di fede e ci invita a cercare sempre il dialogo con tutti, in un atteggiamento di profondo ascolto e rispetto. Fino al dono della vita.

Ed ecco: il 5 febbraio 2006 don Andrea, missionario “fidei donum” (vale a dire: al servizio della Chiesa nelle diocesi sprovviste di clero), è ucciso mentre prega inginocchiato negli ultimi banchi della chiesa di Santa Maria, di cui è parroco. L’assassino, prima di sparargli, grida «Allah akbar (Dio è il più grande)». Davanti al corpo inondato di sangue c’è il Cristo con le braccia spalancate sulla croce. Alle sue spalle, la porta altrettanto spalancata.

…Una porta sempre aperta. In tutti i sensi. È il messaggio che Andrea, fin da piccolo, aveva appreso in famiglia da sua madre che “perdona con tutto il cuore la persona che si è armata per uccidere il figlio e prova una grande pena per lui, essendo anche lui un figlio dell’unico Dio che è amore”.

Valentino