Pino Puglisi: sorriso che converte l’assassino

«Ma io vi dico: amate i vostri nemici e pregate per quelli che vi perseguitano» (Mt 5,44).

Sorride don Puglisi al suo assassino. Un sorriso velato da tanta tristezza nei confronti di chi gli sta sparando. Un sorriso che non s’improvvisa, ma viene da lontano. Viene dal papà, calzolaio, e dalla mamma, sarta, che gli danno la vita nel 1937 nel malfamato quartiere Brancaccio, alla periferia di Palermo. Un sorriso che è coltivato nella preghiera, nella ricerca della propria vocazione, nell’entrata al seminario diocesano – nel 1953 – dove Giuseppe si prepara all’ordinazione sacerdotale nel 1960.

La forza di quel sorriso matura soprattutto grazie al costante lavoro con i giovani, che corrono verso Cristo quando un uomo di Dio li ama, li sprona a volare in alto, li educa a non compromettersi con la mafia e con ogni forma di ingiustizia, ma a vincere il male con un supplemento di bene.

Don Pino s’interessa alle problematiche sociali, soprattutto nei quartieri più poveri ed emarginati della città. Sulle orme del Concilio Vaticano II, si prodiga per incarnare il messaggio di Gesù Cristo nel territorio, assumendone tutti i problemi e così invitando la comunità cristiana a non essere sorda al grido dei poveri e delle vittime della mafia.

Attraverso l’insegnamento nelle scuole e durante i “campi scuola” per i giovani, crea percorsi formativi molto validi dal punto di vista pedagogico e cristiano. Simpatico il ricordo che di lui conserva un suo alunno, Alessandro D’Avenia, che nel romanzo Ciò che l’inferno non è mette sulla bocca del protagonista queste parole, quando racconta dell’uccisione del suo insegnante di religione: «Don Pino sorride. Un sorriso strano, lanciato da lontano, come dal profondo del mare quando la superficie è in tempesta. Mi ricordo ancora la prima ora di scuola con don Pino. Si era presentato con una scatola di cartone. L’aveva messa al centro dell’aula e aveva chiesto che cosa ci fosse dentro. Nessuno aveva azzeccato la risposta. Poi lui stesso era saltato sulla scatola e l’aveva sfondata. “Non c’è niente. Ci sono io. Che sono un rompiscatole”. Ed era vero. Uno che rompe le scatole in cui ti ingabbiano, le scatole dei luoghi comuni, le scatole delle parole vuote, le scatole che separano un uomo da un altro uomo simulando muri spessi come quelli di una canzone dei Pink Floyd».

Il titolo del libro si rifà ad una frase di Italo Calvino: «Togli l’amore e avrai l’inferno. Metti l’amore e avrai ciò che inferno non è». Ecco lo sforzo di don Pino: vincere l’odio con un supplemento d’amore. Proprio in quella Sicilia che è tanto bella, quanto gravida di contraddizioni: colpevoli silenzi, criminali omertà e contemporaneamente slanci di bontà, di generosa accoglienza e di testimonianze talmente coraggiose da portare perfino al martirio.

Bella l’idea di don Pino non solo di salvare i giovani dalla mafia – togliendoli dalla strada e cercando di procurare loro un lavoro –, ma anche di salvare i giovani con i giovani: questi sono invitati a dargli una mano al Brancaccio, lavorando con i bambini del centro “Padre Nostro”, che don Pino ha inaugurato per strapparli ai “padrini” del quartiere. E chi accetta la sfida, fa esperienza che con quel prete inizia una nuova storia, una nuova vita. Inizia magari con un pugno in faccia che fa sanguinare le labbra, e con la bicicletta che viene rubata… Che importa in confronto con il crescere in umanità e riscoprire la fede in Gesù? Non un Gesù astratto, quello venerato la notte di Natale… ma quel Gesù che, ai nostri giorni, papa Francesco mostra nei più poveri: “la carne stessa di Cristo”.

La criminalità organizzata, più di ogni cosa teme la cultura e i buoni maestri. Perciò don Pino si sforza di insegnare la via della giustizia e della santità con il buon esempio – preghiera e formazione – e con il costante invito agli “uomini d’onore” a presentarsi “alla luce del sole” e a non agire nell’ombra. Collabora con i laici della zona dell’Associazione Intercondominiale, per rivendicare i diritti civili della borgata, denunciando collusioni e malaffari e subendo minacce e intimidazioni. Attività pastorali che costituiscono il movente dell’omicidio.

1993. Anno difficile, tempo di fuoco per quella Palermo che un anno prima era stata testimone dell’uccisione di due eroi della legalità, i giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Tempo in cui le cosche mafiose cercano di collegarsi a una diffusa cultura, che non sopporta chi proclama il diritto alla scuola e a quell’educazione che, alla criminalità organizzata, fa più paura del carcere. I boss della malavita eliminano i maestri di vita. Di ciò, don Pino è ben consapevole. Non tenta di redimere i boss. Al contrario, sprona i bambini e i giovani a non apprezzarli, togliendoli dalla strada dello spaccio e della piccola criminalità, alimentata dalla mafia. Sa del rischio che corre. Proprio come Oscar Arnulfo Romero che non esitava a dire, durante le sue omelie: «I miei giorni sono contati…» e ciò nonostante non cambiava modo di parlare, di agire, né chiedeva l’aiuto di una scorta.

Ed è così che i boss della malavita decidono di assoldare le mani di alcuni killer, che eliminino il prete scomodo senza dare l’impressione che il delitto sia legato alla mafia. Si deve organizzare il tutto come se si trattasse di una ordinaria rapina. È la prima volta che, dal dopoguerra, si programma la morte di un prete.
Gaspare Spatuzza, killer di Cosa Nostra, uno che – secondo la sua testimonianza da pentito – fa fatica a ricordare le facce dei parenti, dopo aver ammazzato quarantasei persone non riuscirà più a dimenticare la faccia di don Pino. Un suo compagno ruba al prete il portafoglio, dicendo: «Questa è una rapina». Ma l’uomo di Dio sa che è ben altro. E sorride al killer, affermando: «Me l’aspettavo».

È il giorno del suo cinquattottesimo compleanno. Nasce al cielo, portandovi quel sorriso donato all’assassino. Lo stesso sorriso che Cristo ha donato a Giuda, quando ha ricevuto quel bacio sulle labbra. «Amico…», dice Cristo a chi lo tradisce. E senz’altro gli ha sorriso, perché amava Giuda e perché è impossibile pronunciare la parola “amico” senza un sorriso.

Quarantasei volti spenti dalle pallottole. Volti che cadono nell’oblio. Ma non quello di don Pino. Quel viso, il killer non potrà più dimenticarlo. Non paura, non urlo, non terrore della morte. Ma un sorriso. Il sorriso dei redenti, di quanti si aspettano che la morte non sia l’ultima parola, ma la prima di un dialogo che non avrà mai fine, con il Signore della vita e con tutti i giusti della storia. Sorride mentre aspetta il colpo mortale. Ecco la confessione dell’assassino: «“Me l’aspettavo”… Lo disse con un sorriso. Un sorriso che mi è rimasto impresso. C’era una specie di luce in quel sorriso. Un sorriso che mi aveva dato un impulso immediato. Non me lo so spiegare: io già ne avevo uccisi parecchi, però non avevo mai provato nulla del genere. Me lo ricordo sempre quel sorriso, anche se faccio fatica persino a tenermi impressi i volti, le facce dei miei parenti. Quella sera cominciai a pensarci, si era smosso qualcosa».

E così testimonia il cappellano del primo carcere dove è stato imprigionato l’assassino: «Il vero incontro con Gesù Cristo, lo Spatuzza l’ha fatto dopo la morte di don Pino Puglisi. Perché è Puglisi, il martirio di Puglisi, che ha portato la conversione di Spatuzza. Questo è importante. E lui dal sorriso di don Puglisi che moriva, non le smorfie di dolore ma un sorriso, in quel sorriso ha letto tante cose, ha letto appunto la misericordia di Dio, tant’è vero che io… le volte che ho visto piangere lui nei racconti, nelle meditazioni era proprio quando ricordava la figura di don Puglisi. Questa figura che lo ha totalmente sconvolto, lo ha cambiato dentro».

Valentino