«Remove the cross» (togli il ​crocefisso)



(NB: articolo scritto prima degli attacchi terroristici di Parigi)


Provocazione e attentato. In fila per imbarcare i bagagli all’aeroporto di Dakka, nel passaggio dal Bangladesh al Nepal, sento la frase: «Remove the cross». Tolgo la croce dall’occhiello della giacca perché lo impone la legge e perché la croce viene percepita come intollerabile provocazione. Quello che al momento sembra semplicemente un gesto prudenziale si converte in un rimorso di coscienza. In Nigeria e a Dubai, anni prima, quando ero stato consigliato di togliere la croce, ne avevo estratto dal bagaglio a mano una più grande… come quella dei vescovi.

Allora ero giovane, non accettavo limitazioni e amavo le provocazioni. Ora, dopo aver parlato al clero bengalese per tre mesi della “follia evangelica”, la “follia della croce”, rileggo questo gesto come indebita rassegnazione.

Affluiscono alla mia mente svariate citazioni evangeliche: «…chi invece mi rinnegherà davanti agli uomini, anch’io lo rinnegherò davanti al Padre mio che è nei cieli» (Mt 10,33); «Quanto a me invece non ci sia altro vanto che nella croce del Signore nostro Gesù Cristo» (Gal 6,14).

Per tre mesi, cinque volte al giorno (cominciando dalle cinque del mattino) sono stato inondato dalle preghiere gridate dalle migliaia di minareti di Dakka. Invece di percepirle come grave, disarmonico disturbo, ho cercato di interpretarle come invito a mettermi anch’io in preghiera. Dopo l’uccisione di un nostro connazionale a Dakka, qualche amico mi consigliava di rientrare in Italia, ma io ho scelto di restare tre mesi nascosto in seminario. Da lì, mi sono dovuto spostare nel Nord del Paese, per un corso di due settimane a Nyamensing. È nel viaggio di ritorno a Dakka che stava per accadere l’irreparabile. Viaggiavo in auto con un sacerdote e con una guardia.

Mentre stavo raccolto in preghiera con gli occhi chiusi, ho sentito un urto tra l’auto e non so cosa, e subito dopo eravamo circondati da una folla minacciosa. L’autista è riuscito con decisione e con velocità a disimpegnarsi e rompere l’accerchiamento. Ma dopo pochi chilometri eravamo attesi e di nuovo circondati da gente che aveva grosse pietre nelle mani. Di nuovo la prontezza e la decisione dell’autista ci ha consentito di metterci in salvo.

Dopo il terzo blocco abbiamo imboccato la boscaglia, nascosta ed abbandonata l’auto, e abbiamo raggiunto una via secondaria. Da lì, nascondendo il mio volto dalla pelle bianca, abbiamo preso i risciò-bicicletta per dodici ore e ci siamo salvati.

Nel seminario nazionale del Bangladesh. Tre mesi di insegnamento, meditazione e studio, sono un privilegio: permettono di fare delle sintesi e di trasformare i ricordi in preghiera. E tra i tanti, ho riflettuto sul deterioramento dei rapporti con i musulmani. Una ventina di anni fa, benché fosse impossibile un dialogo a livello teologico, c’era il cosiddetto “Dialogo di vita”, consistente nel cercare di creare occasioni conviviali, legate al vivere quotidiano.

Ricordo ancora con piacere i tre mesi in cui insegnai in un Paese totalmente musulmano, il Pakistan – a Karachi – nel 1985. Alcuni studenti mi avevano aiutato a dare un senso ai disordinati capitoli del Corano, così che avevo potuto scrivere “Islam, a people in prayer”, suggerendo anche come trarre frutto dalla rivelazione islamica. Oggi non ripubblicherei più un libro del genere, di fronte al crescere di integralismo e fondamentalismo nel mondo islamico.

In questi giorni invece ho pubblicato un libro che, sul problema dell’immigrazione in Europa, prospetta una “terza via” diversa sia dal rifiuto che dall’accoglienza fuori controllo. E siccome gran parte degli immigrati è musulmana, ho messo in evidenza le conseguenze deleterie del fatto che nell’Islam non esiste distinzione tra religione e politica. Do un rapido sguardo storico ai problemi creati dai musulmani, soprattutto in Africa; parlo del magistero recente dei papi: quello giustamente critico di Benedetto XVI e quello di papa Francesco, più propenso all’accoglienza di chi sbarca sulle nostre coste.

Bergoglio – evidentemente – parlando come guida spirituale dei cattolici sparsi in tutta la terra fa un discorso che, basandosi sul Vangelo, invoca misericordia, apertura a tutti e scelte preferenziali per i poveri. Tocca alle diverse conferenze episcopali concretizzare i dettami del Papa in conformità ai comportamenti e alle scelte dei cittadini dei diversi stati. Soprattutto, indico come dovere della Chiesa l’aiuto ai singoli governi affinché passino dalla politica dell’accoglienza alla pedagogia dell’accoglienza. Dovrebbe preparare i cristiani a considerare la diversità come ricchezza e invitare i musulmani a rispettare la nostra cultura e, oltre che porre il problema se nell’Islam sia veramente intrinseco il concetto di violenza, chiedersi se con questa religione vi sia possibilità di dialogo (anche se, per un musulmano, chi dialoga dimostra di essere debole e perdente). I cristiani dovrebbero cogliere l’occasione per chiedersi se i problemi creati dagli immigrati possano essere un provvidenziale stimolo a riscoprire la propria identità e ritornare quindi alle radici cristiane dell’Europa.

Il tipo di vita che sto conducendo, mentre mi apre continuamente nuovi orizzonti mi aiuta, da un lato, ad essere sempre più critico ed esigente, dall’altro a mostrarmi sempre più determinato nel proporre le seguenti riflessioni: il mondo sta sviluppandosi a velocità troppo diverse a seconda delle diverse nazioni; ignorare una cultura porta all’impossibilità della reciproca comprensione e del mutuo aiuto; l’umanità non sta marciando verso il “villaggio globale”, ma sta frammentandosi sempre più. 

Globalizzazione? Dio non voglia che abbia ragione papa Francesco, quando parla della globalizzazione dell’indifferenza: per molti, penso non si tratti di indifferenza, ma di mancanza di conoscenza circa la direzione che sta prendendo il mondo e di quanto una religione influisca nel generare una cultura. Di questo argomento parlerò in un altro articolo.

Un “angelo” nero a consolarmi. Ora concludo con quanto vissuto questa mattina: ho rimosso la croce dall’occhiello della giacca, ma non dal mio cuore nè dalle mie labbra. Infatti, ho parlato di Cristo per cinque ore con un nigeriano in attesa dell’aereo con un grandissimo ritardo da Calcutta. Un nigeriano, padre di cinque figli, fantastico per il modo in cui vive il suo rapporto con Gesù. Gli ho raccontato del mio dolore per avere rimosso la croce. Mi ha consolato dicendomi: «Ma sei tu Cristo! Tu, uomo di Dio, con poteri enormi di consacrare e assolvere. Benedicimi Padre! ». E ha preso la mia mano, l’ha posata sulla sua testa, quindi l’ha baciata come è usanza qui tra i cattolici: esigua minoranza, numericamente insignificante, (trecentomila su centosessanta milioni di musulmani), mistica e misteriosa.

Cattolici che – come San Francesco – quando gridano al cielo le loro necessità, hanno come risposta le stigmate di Cristo. Non visibili come quelle di Gesù in croce, ma comunque gloriose.


P. S.: Se qualcuno fosse interessato al libro che ho scritto sugli “Immigrati: pedagogia dell’accoglienza” (con particolare riferimento ad un rapido studio del fenomeno “Islam” in questo momento storico – cap. IV del testo), me lo richieda e io lo invierò via mail. La mia mail è: don_valentino@salvoldi.org

Valentino