Etty Hillesum: amore, cammino che porta a Dio

«Basta una lacrima di un bambino innocente per dimostrare che Dio non esiste». Questo il “ritornello” che sentivo ripetere dai giovani universitari a metà degli anni Settanta, in Russia. Pure in altre parti del mondo il dolore innocente è motivo di scandalo e perdita di fede. Nel tentativo di mettere a fuoco questo enigma, Benedetto XVI non ha esitato a proferire parole pesanti come pietre: «Dov’era Dio ad Aushwitz?». Ed ecco che, in questa martoriata terra, una giovane donna ha affrontato la morte con serenità e ha aiutato altri a morire con dignità, grazie alla fede scoperta proprio nel dolore. Fede sperimentata come inestimabile tesoro, grazie all’amore per tutti e per tutto ciò che esiste e all’intuizione: «Senza Dio il mondo è assurdo». Fede in Dio “disseppellito” dalla parte più intima di sé, quale Fonte stessa dell’eterno Amore.

Etty (Esther) Hillesum, nata in Olanda nel 1914, apparteneva alla borghesia intellettuale ebraica. Nel 1932 intraprese gli studi di diritto e di psicologia. Una donna straordinaria, che possiamo accostare a figure stupende come Simone Weil ed Edith Stein. Aveva un carattere passionale. Facilmente si innamorava di una persona, finché diventò l’amante di un uomo che aveva il doppio dei suoi anni: lo psicoterapeuta Julius Spier. L’inizio della convivenza fu burrascoso. Poi ci fu un consolidamento del rapporto caratterizzato da una serie di paradossi: tanto amore passionale, assieme ad una altrettanto passionale e intensa ricerca di fede. E in questo cammino si aprì alla bellezza della vita, all’unicità di ogni essere umano, al bisogno di riconoscere Dio presente in se stessa. Lei, che si era definita «la ragazza che non riusciva a inginocchiarsi»…

Spier l’aiutò ad affrontare le Sacre Scritture, ad aprirsi a tutte le religioni, a non aver paura a pronunciare il nome di Dio. Anche un amore contraddittorio può portare alla maturità un uomo e una donna, in virtù della loro capacità di gioire di tutto, di meravigliarsi, di amare tutto il creato: specialmente gli esseri umani, che non vanno giudicati, ma accettati con le loro grandezze e i loro limiti. La fede di Etty nell’amore l’aiutò a trasformare il desiderio dell’altro in relazione umana con l’altro. Con l’Altro.

In virtù di un paziente lavoro di conoscenza di se stessa, scoprì un po’ alla volta di essere un frammento del divino: «Quel pezzetto di eternità che ci portiamo dentro…». Fece una progressiva esperienza di un Dio che abbraccia tutta l’umanità e nel quale ci sentiamo tranquilli, sicuri: «…non si può essere nelle grinfie di nessuno se si è nelle Tue braccia».

La fede l’aiutò a vincere – o per lo meno controllare un po’ alla volta – tutti gli innamoramenti che viveva con un temperamento passionale, con un grande desiderio di impossessarsi della persona amata. Grazie alla fede sperimentò il gusto di amare tutti, di perdonare tutti. Non praticò la religione ebraica e neppure quella cristiana, benché si stesse sempre più avvicinando a Cristo: voleva vivere come Lui e seguire il Vangelo.

E fu ancora la fede a permetterle di affrontare il tragico momento della guerra senza esserne sopraffatta e dominata. Anzi, fu lei stessa a dominare la situazione con una libera scelta: avrebbe potuto mettersi in salvo, aiutata da tanti amici e ammiratori, ma preferì condividere volontariamente la sorte degli altri ebrei, condannati allo sterminio nel campo di concentramento, per aiutarli a lenire il dolore.

Proprio nel tempo in cui un’altra ragazza – Anna Frank –, nella stessa zona, scriveva il suo stupendo diario, anche Etty cominciava a comporre il suo. In esso è bene messa in evidenza la sua convinzione: l’unico modo di rendere giustizia alla vita è quello di non abbandonare chi è in pericolo, e di usare la propria forza per portare la luce nella vita altrui.

Siccome la comunità ebraica viveva nel terrore, Etty, cosciente degli immensi doni ricevuti da Dio, si prodigò per essere un dono per tutti, consigliando gli ebrei a risponde al male con il bene e – anziché ripiegarsi sulle proprie sventure – a diventare balsamo per le tante ferite che affliggono l’umanità.

Anche perché il male del mondo rispecchia il marciume che c’è in ognuno di noi, perciò la priorità assoluta per tutti è: convertire se stessi, cercare dentro di sé i mezzi necessari per portare la pace nel mondo, che sarà il risultato della pace che creiamo dentro di noi.

Ed ecco il cuore del Diario di Etty: non si deve incolpare il Signore per i mali dell’umanità, né aspettarsi una salvezza da Dio, anzi “è Dio che deve essere salvato dall’uomo”: vale a dire, l’essere umano deve sentirsi responsabile delle proprie scelte e delle proprie azioni; deve realizzarsi facendo del bene; deve prendere sul serio la sua libertà, che nessuno – neppure in un campo di concentramento – può rubare. In questo contesto si comprendono la familiarità e la grande fiducia con le quali Etty si rivolge a Dio: «…cresce la mia certezza: Tu non puoi aiutarci, ma tocca a noi aiutare Te».

Come? Portando Dio agli altri. Con Lui, il campo di concentramento non è più una prigione per chi diventa libero dentro. La prigione, anzi, si converte in un campo di vittoria. Ovunque noi siamo – anche nella cella più buia – dobbiamo credere che sopra di noi c’è il cielo, sorretti dalla forza in noi data dal Signore: «Possiamo soffrire, ma non dobbiamo soccombere».

Certo, pure Etty visse dei momenti molto brutti. Cercava di superarli lavorando per gli altri. Lo confessò candidamente in una pagina del diario, là dove descrisse il modo in cui reagì alla disperazione creata da un’orribile situazione. Sia pure inondata di lacrime si disse: «Ora preparo la tavola».

Forse, tre immagini possono aiutarci nella lettura di questa donna: l’intuizione del poeta latino Terenzio: «Sono un uomo e tutto quello che c’è di umano mi appartiene»; il film di Benigni La vita è bella, paragonabile ad un “quinto Vangelo”; il mistero del dogma della discesa di Cristo agli inferi.

«Discese dal cielo»: svuotamento totale di un Dio che si fa peccato, si fa maledizione e non sceglie come suoi ministri degli angeli, ma dei poveri peccatori. Discese dal cielo e, peggio ancora, «discese agli inferi»: ha voluto sperimentare fino in fondo il limite umano. Ha imparato dal dolore che cosa significhi essere uomo.

Di fronte allo scandalo delle ingiustizie, del dolore e della morte, Etty – scoperto Dio – ha vissuto il limite umano come un mistero che tutti noi dobbiamo meditare continuamente, se vogliamo innamorarci della vita. Ponendo accanto a noi sorella morte, Dio non ci ruba il gusto di vivere, ma ci sfida con quel dolore che crea il santo, il mistico e il poeta, pronto a cantare il nascere, il vivere, il morire, atti eterni ed effimere passioni. Voli pindarici e cadute di dolore in dolore. Sconfitte e sublimi vittorie della fede, fonte di quella speranza che fa dire al cristiano: «…eppure un giorno sarò eterno».

E dà a Etty quella fede che si fa creativa convinzione: «Se Dio non mi aiuta più, sarò io ad aiutare Dio».