Enrico Fermi ed Ettore Majorana: “Fede, tormento ed estasi”

L’incontro notturno di Farfa. Uno sconvolgente silenzio avvolge l’antico convento di Farfa, una notte di fine estate del 1965. Sto studiando filosofia, mentre cerco di discernere la mia vocazione.

Timoroso, guardingo e rispettoso m’accosta un uomo di circa sessant’anni, con un volto da bambino. M’invita a guardare il cielo. Le stelle. Accenna alla sacralità della materia e alla sublimità dello spirito. Poi, preciso, pone la domanda: «Secondo te, esistono altri pianeti popolati da esseri umani?». Sorride il mio interlocutore alla mia risposta dogmatica e comincia a parlare in parabole.

Nei suoi occhi è palpabile la presenza del Mistero. Da lui voglio sapere di più della sua vita, delle sue idee, della sua concezione di Dio e dell’universo. Ma presto l’idillio è infranto. «Le voci. Le voci!», sussurra colui che ai miei occhi pare un monaco. Poi si dilegua nell’oscurità.

Passano alcuni anni. Durante una lezione parlo dell’incontro con quel misterioso personaggio a Farfa, il cui ricordo è sempre vivo dentro di me. E uno studente, senza esitazione, interviene a dare un nome a quell’individuo: «Da quello che lei dice, dalla descrizione del carattere di quel personaggio e soprattutto da quella fuga in seguito alla percezione delle voci, non esito a dire che lei incontrò Ettore Majorana».

Ho scritto un libro su di lui, ma non l’ho ancora pubblicato perché nella sua città natale, non solo non ho trovato interesse e collaborazione, ma invidia e frasi cattive su questo genio che Fermi stesso ritiene all’altezza di Galilei e di Newton. Lo chiamano “Lo scienziato pazzo”.

Qui mi limito a parlare prevalentemente di Majorana. Timido e umile collaboratore di Fermi, che Ettore all’inizio sceglie come maestro, per dimostrarsi poi di gran lunga superiore al maestro stesso.

“Estasi”. Enrico Fermi (Roma 1901– Chicago 1954) . Uno dei più grandi scienziati di tutti i tempi. Premio Nobel. Noto per i suoi studi teorici e sperimentali nell’ambito della meccanica quantistica. Progetta e guida la costruzione del primo reattore nucleare a fissione.

Così egli parla della sua fede: «Una sera, anzi una notte, mentre aspettavo il sonno, tardo a venire, seduto sull’erba di un prato, ascoltavo le placide conversazioni di alcuni contadini (…) Uno di loro parla di rado e prende la parola per dire cose opportune, sensate e qualche volta sagge. Infine si tacquero (…) Ruppe il silenzio, ma non l’incanto, la voce grave di un grosso contadino, rozzo in apparenza, che stando disteso sul prato con gli occhi volti alle stelle, esclamò, quasi obbedendo ad una ispirazione profonda: “Com’è bello! E pure c’è chi dice che Dio non esiste”».

Come per il contadino, anche per Fermi la fede è estasi, contemplazione, stimolo per passare dalla bellezza del creato alla Fonte di ogni bellezza: Dio. Lo scienziato così commenta, dopo molti anni, quell’esperienza: «Un eccelso profeta ebreo sentenziò, or sono tremila anni: “I cieli narrano la gloria di Dio”. Uno dei più celebri filosofi dei tempi moderni scrisse: “Due cose mi riempiono il cuore di ammirazione e di reverenza: il cielo stellato sul capo e la legge morale nel cuore”».

Parlando di una fede basata sulla convinzione che scienza e fede non sono l’una contraria all’altra e che quest’ultima si nutre di contemplazione e di bellezza, si mette in risalto il fatto che per Fermi la propria credenza in Dio si esprime con un carattere “estatico”, nel senso etimologico: forza che aiuta il credente ad uscire da sé stesso, per cercare nell’Assoluto il senso e il fondamento del tutto. Una fede senza tormenti, pur nella coscienza del dramma che ​Ettore Majorana sta sperimentando, a causa della consapevolezza che gli studi sull’atomo avrebbero portato alla bomba atomica. Fermi risolve il problema mettendosi in contatto con il governo americano: l’eventuale uso dell’atomica da parte dell’America è per lui giustificabile per opporsi al nazi-fascismo. “Tormento”. Il volto della fede di Ettore Majorana (nato a Catania nel 1906), pur non escludendo l’aspetto di “estasi”, si presenta prevalentemente come tormento.

Fin dall’età di cinque anni Ettore rivela una spiccata attitudine per la matematica. Risolve a mente calcoli complicati. Fino a nove anni è suo padre ad occuparsi della sua educazione. Successivamente passa al collegio “Massimiliano Massimo” dei Gesuiti. Egli deve a questi buona parte della sua formazione spirituale, morale e religiosa: a tutti sono note la disciplina, la sistematicità, il rigore, la serietà e il rispetto dei valori e della personalità dei singoli individui che si lasciano da loro guidare.

Alla normale pratica religiosa dei primi anni di studio, si aggiunga il fatto che Ettore sceglie un direttore spirituale e confessore: padre Francesco Ricceri, futuro vescovo di Trapani dal 1961 al 1978. Le testimonianze di questo prelato sarebbe state importanti per capire Majorana, ma Ricceri, mantenendo il segreto professionale, non ha mai voluto rivelare alcunché su questo suo “figlio spirituale”.

Amaldi, suo amico, collega e primo biografo, scriverà che, nonostante l’estrema riservatezza di Ettore nel parlare di Dio, «tutto fa ritenere che egli avesse conservato dalla educazione giovanile uno spirito sostanzialmente religioso».

Non si sa cosa pensi Majorana nei confronti di intuizioni e previsioni di ciò che sarebbe accaduto in seguito agli studi dei “Ragazzi di via Panisperna”, (quanti lavorano con Fermi). Forse non avrebbe voluto essere un genio di tale grandezza. Certamente soffre di un grave malessere interiore se, nel bel mezzo del corso di fisica teorica che tiene all’Università di Napoli – e dopo aver pubblicato dei lavori incredibilmente avanti nei tempi e che sarebbero valsi ad altri per ricevere, dopo oltre vent’anni, due premi Nobel –, in completo isolamento da Fermi e dai suoi amici di Roma, decide di mettere fine alla sua vita pubblica e alla sua carriera per sparire nel nulla.

Il dramma di Majorana si riassume così: lo scienziato ha gravi responsabilità di fronte all’uso che verrà fatto delle proprie scoperte. Lapidariamente Ettore esprime i suoi drammi con una frase comunicata ad un amico: «La fisica non può vendere l’anima al diavolo».

La scomparsa. Recenti articoli parlano della presenza di Majorana in Venezuela dal 1955 al 1959. È verosimile che io l’abbia incontrato, nel 1965, nel convento di Farfa. Qui, dopo circa trent’anni, alcuni anziani monaci mi hanno parlato – sia pure con alcune riserve – di un frate matematico, alquanto interessante, presente nel loro convento in quel periodo, evidentemente con un nome diverso da quello che avrebbe avuto “nel mondo”. A Trapani mi hanno parlato di un grande matematico che viveva di elemosina, faceva penitenza, camminava sempre in ginocchio “in riparazione dei peccati”: lo chiamavano “il cane di Trapani”. Perché proprio in questa città? Evidentemente per poter consultare il vescovo, suo padre spirituale.

Quindi, un uomo di fede, riservato e timido, genio incomparabile, timorato di Dio, avrebbe potuto ammazzarsi? A chi interessa farlo passare per ateo e suicida, nonostante tante prove in contrario? Che dire di tante scuole disseminate in tutta Italia dedicate ad Ettore Majorana? E non possiamo fare una parallelismo con Dag Hammarskjöld, che abbiamo scoperto essere un mistico solo grazie al diario lasciato in testamento ad un amico?

Dio – che è fonte di estasi e tormento – «è gratuito, ma non superfluo». Non è il “Deus ex machina” che soppianta l’essere umano, ma Colui che dà significato alla vita di chi lo cerca, amando. Non è l’oggetto di una nostra conquista, ma assoluta grazia e pura gratuità. Così Majorana lo percepisce, ha un rapporto intimo con Lui, sente come peccato tutto ciò che non lo onora nel prossimo e, confidando nella divina misericordia, è capace di spendere il resto della propria vita facendo penitenza per la sua “hybris”: la tracotanza (lo spingersi con il pensiero oltre la giusta misura), la colpa per un evento accaduto nel passato che può influenzare in modo negativo gli eventi del presente, la mancanza di senso di responsabilità per quanto possa succedere alle future generazioni.

Ed è segno di grandezza l’essere umili nel riconoscere il proprio errore e confidare nella divina misericordia.

Valentino