Per globalizzare la speranza

Amici, per un mese ho insegnato in due seminari del Congo, al confine con l’Angola. Ero nel mezzo del nulla più spinto e penso che nessuna descrizione renderebbe l’idea dalla situazione. Il trenta per cento dei bambini muore prima dei cinque anni. Si mangia una volta al giorno e spesso un giorno sì e un giorno no. E che cosa si mangia? Oltre alla manioca, quelle erbe che sanno di nulla – ma per lo meno non sono velenose – e danno un tocco di colore a quella pentola dalla quale tutti attingono, intingendo nel “piripiri”: un peperoncino rosso, per gli africani gustoso, per noi occidentali micidiale.

Le abitazioni sono tutte uguali: mattoni fatti con la rossa argilla e il tetto coperto dall’“erba elefante”. La vita non si svolge in casa, ma sulla strada, in perpetuo movimento. Le strade presentano buche profonde anche tre metri. Per percorrere duecento chilometri, dal seminario di Kananga a quello di Lwiza – pioggia permettendo –, s’impiegano più di otto ore.

Mi sono fermato in una parrocchia, distrutto. Mi sono giustificato davanti ai sacerdoti dicendo che sono vecchio e che quindi avrei dovuto ridurre l’attività. «No, padre, voi siete ancora forte. La maggior parte dei nostri uomini, in confronto a voi, sono morti già da vent’anni».

La diocesi di Lwiza. Due milioni di abitanti. Una ottantina di preti nelle varie parrocchie e una quarantina all’estero. Di questi, più nessuno vuole rimpatriare. La questua domenicale spesso raggiunge solo i mille franchi congolesi: un dollaro. Per vivere, il prete deve coltivare i campi.

Il vescovo, Mons. Félicien Mwanama, molto bravo, ha studiato in Italia e durante l’estate faceva l’assistente a Castro, in una parrocchia del bergamasco. Lui non ha il coraggio di chiedere soldi e, in questo campo, io sono peggio di lui. Mio papà più volte mi ha raccomandato: «Fa mia öl fra sircot (Non fare il frate questuante)».
Inoltre, non sono io la persona adatta per presiedere una eventuale Onlus. Ma, se qualcuno si fa avanti, io potrei impegnarmi a convogliare il ricavato della vendita dei miei libri a questo scopo: realizzare un allevamento di bovini, maiali e galline, per assicurare un po’ di carne che sia diversa dal “piatto nazionale”, il più prelibato: le larve. Quando si trovano.

Sarebbe necessario anche che qualche esperto di allevamenti fosse presente, per fornire alla popolazione indicazioni e suggerimenti perché gli animali sopravvivano, le galline facciano le uova e le mucche il latte. Forse non ci sono problemi per i maiali, che si abituano a tutto.

Di certo, non ho visto un bianco in questa terra. Sull’aereo, ero l’unico non nero. Tutti sono fuggiti da quello che poteva essere un paradiso per le enormi ricchezze del sottosuolo e che invece le guerre hanno ridotto a un inferno. Meraviglia il fatto che la gente – abituata al peggio – si rassegna, vive alla giornata, mangia se le donne riescono a procurare un po’ di cibo, aspetta con gioia la domenica che trascorre cantando dentro la chiesa e poi all’esterno di essa.

In vista dell’Anno Santo della Misericordia. Il Giubileo indetto da papa Francesco potrebbe avere come icona il vescovo Tonino Bello, che oltre vent’anni fa così prevedeva quanto sta capitando ai nostri giorni: «Lo scenario del mondo sta cambiando e ci troviamo tra il diluvio e l’arcobaleno. Quanti guasti, quante miserie, quanta sofferenza, quante ingiustizie, quante torture affliggono l’umanità! Non è difficile prevedere che masse di disperati tenteranno nell’immediato futuro di spingersi verso l’Europa industrializzata.

Tuttavia ci sono i segni premonitori del tempo che verrà.

L’anelito di giustizia, di pace, il volontariato, il bisogno di essenzialità: sono questi i segni dell’arcobaleno.
Ai giovani dobbiamo dire che bisogna moltiplicare gli sforzi di progettualità e di elaborazione, per disegnare gli scenari di un mondo nuovo; devono sapere che è prioritario combattere l’egoismo e il particolarismo».
Le parole di don Tonino Bello sono sferzate di nostalgia. Mi riportano a quell’orizzonte di carità immenso, in cui è nata la mia vocazione: il sogno di un amore senza limiti. L’aspirazione di amare tutti, sempre e senza mezze misure. Vocazione e aspirazione che non sono l’esclusiva di una persona chiamata a consacrare tutta la vita nel ministero sacerdotale, ma sono un imperativo categorico per tutti i battezzati. Dio ci indica cosa fare di bene, dove, come e quando. La nostra sapienza consiste nell’interpretare ciò che Dio vuole. È un impegno personale, in obbedienza a quanti il Signore mette sul nostro cammino: dai genitori ai maestri dello spirito. Dal magistero ecclesiastico, al “magistero” dei poveri. Sono loro i nostri signori, i nostri maestri, i nostri superiori. Sono loro il filtro privilegiato che ci fa conoscere la volontà di Dio.

Ne sono pienamente convinto e da qui sgorga l’obbedienza al Signore, alla Chiesa e a quanti la Provvidenza mette sul mio cammino…

Però, invecchiando, mi chiedo: ho veramente realizzato quel sogno?

Non so. Temo che i confini del mio amore siano risultati più ristretti di quanto pensavo. Non credo di aver realizzato quei gesti di ordinaria pazzia che fanno i santi. E le opere di misericordia corporale avrebbero dovuto occupare un posto più rilevante nella mia vita.

Nonostante la brutta batosta che ho preso in Congo (la malaria, con disturbi al cuore), appena sarò in forma riprenderò le vie dell’Oriente: da agosto a dicembre sarò in Bangladesh. Non ho le forze né la competenza per “organizzare la speranza” di dare una mano a quella che reputo la parte più povera dei 36 stati africani, dove sono stato chiamato. Ma ecco l’appello che lancio a chi ha il privilegio di mangiare tre volte al giorno, di avere una famiglia, di essere arricchito del dono della fede: «Dio perdona tante cose, per un’opera di misericordia!», diceva il Manzoni. E tutti abbiamo qualche cosa da farci perdonare. Tutti noi che confidiamo nelle parole di San Giovanni: «Quando il cuore ti accusa di peccato, sappi che Dio è più grande del tuo cuore».

Resto in attesa di suggerimenti. E anticipatamente ringrazio quanti mi aiuteranno a globalizzare la speranza.

Dio ci benedica.

Valentino