Seppellire i morti

Neppure quest’ultima opera di misericordia corporale è così semplice e scontata come si sarebbe tentati di pensare. Lungo i secoli emerge dalla Bibbia la figura di Tobia, simbolo di quest’opera di misericordia. Pur di non lasciare insepolti e abbandonati nelle strade i cadaveri dei suoi fratelli ebrei perseguitati, metteva a rischio non solo il suo patrimonio, ma anche la sua famiglia e la sua vita.

Gli schermi televisivi e i giornali ci hanno abituati a prendere atto, senza batter ciglio, di un’infinità di situazioni come quelle contro cui lottava Tobia. Vittime degli odi e delle guerre, innumerevoli esseri umani restano sulla terra cadaveri. Forse, neppure ci commuoviamo. Gli interventi rispondono più a preoccupazioni igieniche o mediche, che non a moti di compassione.

Quando ero piccolo partecipavo a tutti i funerali della mia parrocchia, perché mi piaceva molto fare il chierichetto. Durante le vacanze, come seminarista, ero invitato ai funerali, perché a quei tempi avevo anche una bella voce ed ero intonato nel canto. Grazie a Dio non sono mai stato parroco, perché come tale avrei dovuto presiedere alle cerimonie funebri e ciò mi sarebbe costato troppo, perché ogni morte mi appartiene e la vivo con dolore, anche per persone che non conosco.

Per un prete “seppellire i morti” è una “incombenza” quasi giornaliera, di routine. Mentre in Africa il prete è chiamato “l’uomo della festa”, in Europa lo si vede spesso come “l’uomo dei funerali”. Il rischio è quello che divenga insensibile. E a volte è necessario che prenda le distanze, specialmente di fronte ad alcune sceneggiate altamente drammatiche dei “dolenti”. Si può sospettare che dietro alcune loro grida e pianti disperati ci sia molto da farsi perdonare… Forse, non è una cattiveria pensare che le esternazioni di sofferenza siano inversamente proporzionali al dolore vero.

Tante volte invece ci troviamo coinvolti, anche emotivamente, in situazioni tragiche, come la morte di un giovane o di persone care. Non dimenticherò mai la celebrazione del funerale di Bachelet, una figura meravigliosa come magistrato e politico, come padre, come credente. Attraverso la televisione ascoltammo il figlio che perdonava gli assassini del padre e cantava, assieme alla mamma e alla sorella, mentre sui visi grondavano le lacrime.

Comunque ho l’impressione che anche “nostra sorella morte” – come la chiamava San Francesco – ai nostri giorni navighi in brutte acque, anch’essa svestita del mistero e della serietà che le compete.

Di fatto, l’atteggiamento verso la morte oggi è quello di una tremenda paura. L’idea stessa viene rimossa. Non se ne parla. Diciamo, in modo impersonale, che “si muore”, ma non consideriamo seriamente che un giorno o l’altro anche noi moriremo. È un problema che riguarda gli altri.

Dicevo oggi, perché non sembra che sia stato sempre così nella storia. In genere – fino al Medio Evo compreso – la morte era vista e accettata come un evento naturale, come qualcosa che fa parte della vita. Tant’è vero che i cimiteri non erano separati dal paese. Spesso i morti si seppellivano davanti alle chiese e in occasione delle feste si ballava tranquillamente anche sullo spazio occupato dalle tombe. Non era affatto mancanza di rispetto verso i defunti, ma probabilmente un modo per sentirli ancora vicini.

Nei tempi antichi i parenti andavano a trovare regolarmente i loro defunti, si sedevano al lato della tomba, pregavano, mangiavano, bevevano e si preoccupavano di far calare nelle tombe del cibo anche per i loro morti. È facile riscontrare ciò in Sicilia, dove si possono osservare molte tombe con questi “tubi” per il passaggio del cibo ai defunti.

Nel tardo Medio Evo, l’onnipresenza del divino perde terreno nel pensiero dell’uomo a vantaggio della vita umana. La giusta valorizzazione dell’uomo – che si riconosce centro vivo della storia e protagonista delle scienze e dell’arte – non solo esalta giustamente la persona umana, ma finisce per mettere in soffitta la religione, la fede e Dio stesso. Ma contro l’esaltazione della vita si erge lo spettro della morte, che si presenta come nemica implacabile della vita. Di conseguenza, l’atteggiamento dominante negli ultimi secoli è una paura crescente della morte. Famosi quadri la dipingono armata di una falce con cui miete le nostre vite, nonostante la lotta drammatica dei medici. La conseguenza prevedibile è uno sforzo collettivo di rimuovere l’idea stessa della morte, oppure di esorcizzarla in qualsiasi modo.

In generale, nei confronti dei defunti abbiamo un rapporto abbastanza complicato, legato anche al fatto che, in fondo, ci sentiamo in colpa per essere vivi mentre l’altro è morto. Ancora peggio quando ci troviamo ad affrontare gli immancabili sensi di colpa per ciò che abbiamo fatto o non fatto verso il caro estinto.

Quando si parla della carità espressa nel seppellire i morti, si intende sottolineare l’urgenza di accompagnare con fede e amore chi vive questa tappa necessaria della vita, rispettando la situazione psicologica del malato e i suoi limiti nel sopportare il dolore. Questa opera di misericordia corporale, applicata ai nostri tempi, rimanda a quest’ultima considerazione: mentre condanniamo l’accanimento terapeutico, siamo fermi nel mostrare come, con l’eutanasia, si rischi di rubare alla persona l’opportunità di vivere la propria morte, che ritengo possa essere il momento di maggiore lucidità interiore e di più profonda purificazione. Chi chiede di essere ammazzato, non vuole in realtà morire, bensì lancia un estremo appello ai propri cari: ha bisogno di un supplemento d’amore.

Ecco le opere di misericordia corporale. Le opere della carità, di cui la prima è purificare il nostro amore, cioè amare veramente. Senza dimenticare che l’amore vero si traduce in gesti concreti: siamo chiamati a ricordarci che noi siamo amore e che, amando, ci trasformiamo in Amore. Per questo la morte non avrà su di noi l’ultima parola. Una tomba è troppo piccola per contenere il nostro amore. Risorgeremo.

Valentino