«Sia su di noi la bellezza del Signore»

«Occorrono molti anni per diventare giovani». Alla vigilia dei settant’anni, è bello condividere qualche riflessione sul privilegio d’invecchiare: argomento tanto più necessario in questi tempi in cui la cura del corpo, l’apparire più che l’essere e la bellezza intesa più come fatto estetico che come splendore di verità, dipingono il rapido trascorrere dei nostri anni come una segreta malattia. Segreta, perché il pensare alla propria età dà fastidio, per cui si fa di tutto per non rivelarla agli altri.

È pur vero che già nel 160 avanti Cristo il poeta latino Terenzio scriveva: «La vecchiaia è per sé stessa una malattia». Egli si riferiva soprattutto ai malanni fisici e alle privazioni che di solito si accompagnano alla senescenza. Ma in seguito, quella sua frase è diventata un motto per tutti quelli che odiano l’avanzare dell’età, ignorando che il saper invecchiare – mentre è una delle imprese più difficili nell’arte del vivere – è il capolavoro della saggezza umana e divina.

Brutta l’affermazione di Albert Camus: «Invecchiare significa passare dalla passione alla compassione». Realistica la convinzione di Johann Wolfgang Goethe: «Non occorre alcuna abilità per invecchiare, ma occorre abilità per saperlo sopportare». Simpatica la battuta del credente Paul Claudel: «Invecchiando perdiamo parecchi dei nostri difetti: non ne abbiamo più bisogno».

Per capire l’arte d’invecchiare bene giova rifarsi al Salmo 90, che culmina con questa affermazione:
«Gli anni della nostra vita sono settanta,
ottanta per i più robusti,
ma quasi tutti sono fatica, dolore;
passano presto e noi ci dileguiamo».

Ma il passare rapido del tempo non è visto dal Salmista come una maledizione: il contare i nostri anni non è una disgrazia; al contrario, costituisce uno stimolo per arrivare alla sapienza del cuore. Aiuta a non farsi illusioni, ma a familiarizzare con il pensiero della fine. Non con preoccupazione, sgomento e paura, ma con fiducia, con coraggio, con l’ottimismo di chi si rende conto che «occorrono molti anni per diventare giovani» (Pablo Picasso) e sempre giovane è il cuore che ama.

“Bellezza d’invecchiare come il vino buono”. Durante la messa a Rio de Janeiro celebrata con i confratelli gesuiti – nel contesto della Giornata mondiale della gioventù 2014 –, papa Francesco ha espresso una preghiera: «Dio ci doni la grazia di invecchiare con sapienza, di invecchiare con dignità. (…) Che noi si possa essere come il buon vino, che quando invecchia migliora». Certo: il vino deve essere buono in partenza, altrimenti invecchiando perde tutto, anzi, diventa cattivo. Ecco perché non va rimandata “alle calende greche” la nostra corsa verso il Signore della vita: prima si inizia, più si è sicuri che, aggrappati all’Eterno, si darà un gusto al vivere, un significato al dolore, una bellezza all’invecchiare e una simpatica curiosità anche al morire.

Per questo motivo il Papa, a Copacabana, in mezzo ad una sterminata marea di giovani ha parlato della bellezza d’invecchiare, di diventare nonni: «Sono importanti i nonni nella vita della famiglia, per comunicare quel patrimonio di umanità e di fede che è essenziale per ogni società». Poi, citando il documento di Aparecida dei vescovi latinoamericani, ha messo in risalto il valore del dialogo tra generazioni: è un tesoro da conservare e alimentare. «I bambini e gli anziani costruiscono il futuro dei popoli; i bambini perché porteranno avanti la storia, gli anziani perché trasmettono l’esperienza e la saggezza della loro vita». Esperienza, saggezza e la vera sapienza: «Vanità delle vanità e tutto è vanità», tranne l’amare.

«Ma che amo, quando amo te?». Arrivato a tarda età, innamorato dell’Amore in tutte le sue manifestazioni, Sant’Agostino si pone questa domanda e si dà la risposta: «Non una bellezza corporea, né una grazia temporale: non lo splendore della luce, così caro a questi miei occhi, non le dolci melodie delle cantilene d’ogni tono, non la fragranza dei fiori, degli unguenti e degli aromi, non la manna e il miele, non le membra accette agli amplessi della carne. Nulla di tutto ciò amo, quando amo il mio Dio. Eppure amo una sorta di luce e voce e odore e cibo e amplesso nell’amare il mio Dio».

Unico suo rimpianto, non averlo amato fin dalla più tenera età: «Tardi ti amai, bellezza così antica e così nuova, tardi ti amai. Sì, perché tu eri dentro di me e io fuori. Lì ti cercavo. Deforme, mi gettavo sulle belle forme delle tue creature. Eri con me, e non ero con te. Mi tenevano lontano da te le tue creature, inesistenti se non esistessero in te. Mi chiamasti, e il tuo grido sfondò la mia sordità; balenasti, e il tuo splendore dissipò la mia cecità; diffondesti la tua fragranza, e respirai e anelo verso di te, gustai e ho fame e sete; mi toccasti, e arsi di desiderio della tua pace».

«Ti basti, Signore, la mia fedeltà». Questa la mia preghiera, col passare degli anni. Diversamente da Sant’Agostino, fin da piccolo non desideravo altro che pregare, correre in chiesa, servire la messa, inebriarmi dell’incenso, desiderare che i miei amici venissero a pregare con me. E, uscito di chiesa, il gioco preferito consisteva nell’invitare il mio fratellino a servirmi la messa. Creavo ovunque altarini. Mi “segnavo” ogni volta che vedevo una croce. Recitavo una giaculatoria ogni volta che sentivo qualcuno bestemmiare e, siccome a quei tempi le bestemmie non erano rare, pregavo sempre…

Non è il caso che ripercorra tutta la mia vita, caratterizzata – come per tutti gli esseri umani – da quegli errori che sono inevitabili per chi cerca di fare qualche cosa. Non mi mancano i difetti, ma almeno non ho perso l’abitudine di pregare. Spesso risuona in me quanto disse Dio al vescovo della Chiesa di Efeso, non certo cattivo, ma venuto meno al fervore del passato: «Mi amavi di più quand’eri giovane».

Questa frase mi fa un po’ paura. Ma subito cerco di mutare il mio timore in una richiesta piena di speranza: chiedo al Signore di avere pietà di me, considerando anche solo il fatto che mi sforzi di mantenere la fede, che cerchi di comunicarla agli altri, che non mi stanchi di recitare il “Confesso”, confidando nella sua infinita misericordia. Glielo chiedo mentre recito il salmo 90, grato di sperimentare un’intima pace soffermandomi sul versetto che mi apre alle prospettive dell’eterna giovinezza in cielo: «Sia su di me la bellezza del Signore».

Valentino