«Se non avessi la fede»

Il privilegio di credere. A Perugia, dopo una conferenza in cui parlo della mia esperienza di fede, una donna mi accosta: «Padre, se non avessi avuto la fede…». La stessa frase che avevo sentito a Ikire, in Nigeria: una donna stava coprendo con la rossa terra il corpo di suo figlio, Kainde, morto di fame a cinque anni. Le chiesi chi le desse tanta forza nel compiere un rito così straziante che faceva stare male me, prete che invano, con l’aiuto di un’infermiera, avevo cercato di salvare quel piccolo con una flebo. In quel corpo consumato dalla fame, non eravamo riusciti a trovare una vena. E quella madre, senza versare una lacrima, mi rispose: «Padre, se non avessi la fede… Ma io credo. E ringrazio voi missionari che ci avete portato Cristo. Lui basta a riempire la mia vita».

Mentre chi non ha fede, di fronte al dolore – soprattutto al dolore dell’innocente – rischia d’impazzire, chi ha il dono di credere, nella sofferenza intesa alla luce di Cristo può raggiungere vette sublimi di santità, mentre cresce grandemente in umanità.

La fede opera il miracolo: non ci viene tolta la sofferenza, ma ne scopriamo il senso. Aggrappati a Cristo comprendiamo che Egli non è venuto a cancellare il dolore, ma a prenderlo su di sé per trasfigurarlo, per infondervi qualche cosa di divino, per trasformarlo in un trampolino di lancio verso l’eternità.

Condivisione dell’esperienza di fede. Quella madre di Perugia mi accoglie nella sua famiglia, dove da lei e dal marito apprendo come si siano incontrati, le crisi, le gioie della maternità e paternità, l’ora tremenda dell’impatto con la morte, la grazia di quella tragedia trasformata in un supplemento di vita. Grazie alla fede.

E mentre narrano, ripenso alla madre di Kainde; a una donna del Malawi che commenta la morte di suo figlio con una lapidaria professione di fede: «Mulungo alipo (Dio c’è)»; a una mamma del Ghana che portava alla sepoltura il corpicino del suo bambino legato in un cestino, dietro la sella della bicicletta: «Padre, benedici il mio bambino prima che lo seppellisca. E preghi perché lo ritrovi in Cielo».

I due genitori di Perugia … Tutto bello durante i primi dieci anni di matrimonio, ma quando Giacomo – il secondo figlio – compie tre anni, tutto radicalmente si ribalta: il piccolo ha la leucemia. Cominciano i trapianti del midollo osseo: interventi dolorosissimi che il bambino impara ad accettare piangendo in silenzio. Chemioterapia, devastante. Momentaneo sollievo, quando la malattia sembra sconfitta. Ma presto c’è la ricaduta. S’impone la ricerca di un donatore del midollo osseo che sia compatibile con quello del bambino. Su tremila possibili donatori, solo tre sono compatibili. Due in Australia, ma non sono reperibili. Uno in America, che… non si fa vivo.

Se il possibile donatore fosse stato un bambino, questi si sarebbe offerto semplicemente come nel fatto che ho già raccontato.

Elisa, una bambina americana, soffriva di una malattia rara e grave. Unica sua possibilità di sopravvivere era la trasfusione di sangue prelevato dal fratellino, di cinque anni, prodigiosamente scampato dalla stessa malattia.

Il medico spiegò al bambino che solo lui poteva salvare sua sorella, grazie al dono del suo sangue. Forse non si spiegò bene, per cui il piccolo esitò per un momento, gli scese una lacrima, ma presto reagì: «Sì, donerò tutto il mio sangue, basta che mia sorella si salvi».

I due bambini erano distesi sullo stesso letto, uno accanto all’altra. Il fratello ogni tanto apriva gli occhi per guardare sua sorella e sorrise quando vide che le sue guance riprendevano colore. Durò poco il sorriso. Impallidì. Guardò il medico e chiese: «E adesso, quando muoio io?». Pensava che avrebbe dovuto versare tutto il suo sangue…

I grandi si dimenticano di essere stati bambini. Mentre Giacomo, maturando in fretta grazie a un dolore vissuto pregando continuamente, quando in ospedale sente piangere una bambina affetta dalla sua stessa malattia, dice alla mamma: «Vorrei soffrire io al suo posto, così smette di piangere».

Chiede di ricevere la prima comunione, benché abbia solo sei anni. Prega tanto, in silenzio. Riceve Gesù con grande raccoglimento. E quando la mamma gli chiede cha cosa stia provando, risponde: «Vedo la passione di Gesù».

Alcuni giorni dopo chiede alla mamma: «Vuoi che ti racconti come sono gli angeli?». E, mentre va in altalena, comincia la sua descrizione:

- Gli angeli proteggono le persone con il loro stesso nome.
- Appena arrivati in paradiso non hanno le ali: crescono man mano che fanno cose buone. Combattono il diavolo con i soffi (sospiri) d’amore, sono queste le loro armi.
- Gli angeli sono tutti buoni, ma se scappa loro una parolaccia, vanno subito all’inferno.
- In verità la loro tunica è più elegante di uno che indossi cravatta o papillon.
 
La famiglia si reca a Medjugorje perché Giacomo vuole pregare la Madonna. Egli confida: «Al suo cuore ho consacrato tutto il mio cuore». Sale il monte e sta abbracciato alla grande croce che sovrasta il villaggio. Il nonno gli chiede: «Vedi la Madonna?»: «No – risponde – ma la sento».
 
Papà e mamma passano le notti accanto al lettino recitando rosari. Giacomo li segue in silenzio. E quando viene il momento di andare in paradiso, il papà gli chiede : «È accanto a te il tuo angioletto?». «Sì». «E cosa ti dice?». «Sta’ in guardia!». «Ma c’è Gesù lì davanti a te?». «Sì, con molti angeli».
 
…E se ne va, «la sua stringendo fanciullezza al petto, come i candidi suoi petali un fiore ancora in boccia!».
 
E dal paradiso intercede per la serenità dei suoi genitori che, rafforzata la fede, si trovano arricchiti di un altro figlio.

La mamma di Kainde, la donna del Malawi e del Ghana, la famiglia di Perugia e tante, tante esperienze vissute in tanti angoli della terra, fanno sì che spontaneo sgorghi quel senso di meraviglia che portò Alessandro Manzoni a scrivere questi versi:

«Bella immortal, benefica
fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati…».

Valentino