Con sguardi sazi solo d’Infinito

Dopo circa quarant’anni rivedo un’amica che avevo incontrato in Africa: volontaria, celibe, tutta un dono per gli ammalati di un grande villaggio, dove la gente viveva di un’economia di sussistenza. Mi veniva a trovare in seminario una volta al mese, quando si recava in città per fare un po’ di spesa: comperava poche cose, perché era una pessima cuoca e si accontentava del poco che i poveri le regalavano, riconoscenti per le cure ricevute. L’attendevo con gioia, come amica e come sorella maggiore con la quale pregavo, senza intrattenerla molto, ligio com’ero al senso del dovere nei confronti di tanti studenti – oltre cinquecento – seguiti solo da quattro professori residenti.

Tutte le vere amicizie sono un sacramento, uno spontaneo rimando alla sorgente di ogni forma d’amore, ma sono “divine” quelle che si stringono tra credenti in terra straniera, in mezzo ai poveri, molti dei quali – oltre ad essere «la carne di Cristo» – sono maestri nell’arte di comunicare, mettono in evidenza prevalentemente le cose belle e si attendono tutto dalla vita.

Ed ecco l’amica: «Valentino, tu scrivi bene, ma parli troppo di bellezza, d’Infinito e di amicizia. E chi, come me, non è bello o bella?…». Non so se prendere questa osservazione come un rimprovero o come un complimento. Mentre guardo l’amica mi vengono in mente le parole di un monaco: «Ti amerò ancora – non preoccuparti – oltre il tuo sfiorire. La tua bellezza giovane fu un’esca. Ora ci sei tu». La bellezza come esca. Significativa l’espressione di Simone Weil: «Dio è bello, e la bellezza è l’esca del divino, la trappola con cui più volentieri Dio cattura le anime».

Bellezza. Spiego all’amica ciò che, instancabilmente, vado ripetendo: la bellezza è splendore di verità. È capacità di stare bene nella propria pelle. È l’arte di comunicare amore a persone che percepiscono il divino in quel determinato corpo in cui armoniosamente si fondono eros, agape e filia: l’attrazione, la condivisione oltre i limiti dell’altro e l’amore ricambiato. La bellezza è un dato oggettivo. Non è basata sull’effimero «Mi piace», ma sulla verità del rapporto. È legata alla capacità di vedere il bello e il buono presenti nella persona amata. Questa, invecchiando, si presenta come un albero d’autunno: cadono le foglie e, finalmente, si vede la sua nuda bellezza, la sua essenzialità. Anche i suoi rami secchi, visti in prospettiva del cielo, scrivono parole di speranza, abbozzano poemi.

Rischio, forse, di non essere oggettivo parlando di mia madre. Ma, nel mio paese, tutti mi hanno sempre detto che era una gran bella donna. Veniva dal Friuli. Godeva del dono di una fede semplice e genuina. Era riservata, rispettosa e discreta. Morì a novantasette anni, lucida di mente, senza rughe in viso, grata al Signore per ciò che le aveva dato e… per ciò che le aveva tolto. Più della bellezza estetica, era la bellezza morale a renderla affascinante: molte persone che venivano nel mio studio per un colloquio, spesso mi dicevano di aver già risolto il loro problema parlando con mia madre. È a questo tipo di bellezza che mi riferisco, quando invito tutti a lodare il Signore, perché ci ha creati “tob”: parola ebraica che indica, simultaneamente, la bellezza e la bontà. È questo tipo di bellezza che così mi fa pregare il Signore:

Tu non mi cerchi, Dio, perché sono bello, ma è il tuo sguardo che crea la mia bellezza.
Tu non mi ami, Dio, perché sono buono, ma è il tuo amore il fondamento della mia bontà.
Tu non vieni in me, Dio, perché ti merito, ma è la tua misericordia a spalancare il tabernacolo.
Bellezza, bontà e misericordia: doni incommensurabili del Padre, virtù del Pastore bello e buono, sigilli dell’illogico Amore.

Infinito. Mi sorprende il fatto di trovare persone perplesse di fronte alla mia affermazione: «Tutto quello che è meno dell’Infinito non m’interessa». Nasconde, forse, questa frase un disprezzo per tutto quello che è umano? Non lo può dire chi è minimamente familiare con i miei scritti e con quanto – sulle orme di Terenzio – vado ripetendo: «Tutto quello che è umano mi appartiene». Quanto più una realtà è umana, tanto più è divina, allo stesso modo in cui quanto più è divina, tanto più è umana.

Ed è bello passare di gente in gente con il preciso intento di fare dell’incontro una grazia: fare emergere l’Infinito, adombrato dal corpo e invocato dallo sguardo. Occhi accoglienti, pupille che abbracciano, sguardi che, silenziosi, sigillano una eloquente intesa. Sguardi innocenti come quelli di bambini che non giudicano, ma accolgono chi non ha paura di incontrare il mistero che ogni persona nasconde. Il mistero che l’amore rivela rimuovendo il pudico velo, il corpo, sigillo dell’anima.

Quale festa l’incontro in cui scocca la scintilla dell’Infinito! Quanto dura? Non conta il tempo quando si ama. Né mai si ama invano. Quanto si conosce di quella persona? Tanto. Poco. Tutto. Nulla… Non importa: basta aver colto un barlume d’amore. Colto una gioia e supposto un’inevitabile tristezza. Tristezza che rende quella creatura ancora più umana, più bella, sempre più simile alla Bellezza incomparabile.

E quando questa creatura se ne va – per la sua strada o… al Creatore – luminoso rimane il suo ricordo. Come una stella cadente. Dura tre secondi nel cielo, ma un’eternità nell’anima: è una risposta a ciò che dal cielo ci si aspetta. Scia di luce che illumina la notte del dubbio, ravviva gli orizzonti della speranza, riscalda il cuore, genera la nostalgia dell’Amore eterno.

Amicizia. Secondo l’evangelista Luca, quando Gesù salì al cielo aveva lo sguardo rivolto a Betania. Tornava alla casa del Padre e salutava la terra guardando alla casa di Lazzaro, Marta e Maria, l’oasi che gli aveva concesso il privilegio di sperimentare il balsamo dell’amicizia.

L’Autore della Lettera agli Ebrei dice che Gesù imparò dal dolore ad essere uomo e a ubbidire al Padre. Possiamo aggiungere che imparò ad amare sempre più la vita grazie all’esperienza dell’amicizia.

Non sappiamo nulla riguardo alla sua giovane età, mentre i Vangeli affermano che scelse dodici persone «perché stessero con lui». Da Lui le moltitudini erano attratte, perché «da lui usciva una forza che guariva tutti». Alcune donne avevano lasciato tutto per seguirlo, compresa la moglie del governatore di Erode (il secondo uomo più importante della Palestina…). E chi non ricorda quanto capitò a Maria di Magdala e a quell’altra Maria, che lavò i piedi di Gesù con le sue lacrime e li unse con il nardo? Questo unguento costava trecento denari: dieci volte di più di quanto Giuda guadagnerà vendendo il Maestro. Dieci volte!

Proprio ad indicare che l’amicizia vale dieci volte di più del tradimento. In quell’ultima notte, Gesù diede il boccone dell’amicizia proprio a Giuda che nell’Orto degli Ulivi chiamerà, per l’ultima volta, “amico”. E sempre in quella tragica notte diede il suo testamento: «Non vi chiamo più servi, ma amici». Volle morire circondato non da discepoli, ma da amici.

Per tutti questi motivi, il cristiano non deve mai stancarsi di parlare dell’amicizia e di pregare perché il Signore continui a rivelarsi attraverso i suoi angeli: quegli “angeli” che ci curano con il balsamo dell’amicizia e renderanno meno difficile il passaggio a quella vita in cui i nostri sguardi, per tutta l’eternità, si sazieranno solo d’Infinito.

Valentino