Fede preziosa perché fragile

«Se questi e quelli, perché non io?». Abramo, Mosè, Davide, Pietro… e tutti i grandi e i santi della storia e della Chiesa. Grandi e santi: tutti fragili, tutti con i piedi per terra e non immuni da difficoltà nel credere, da sbagli spesso involontari, ma pur sempre preoccupanti e da peccati più o meno gravi.
Quell’Abramo che cercava Dio nelle stelle del cielo, che lo andava interrogando nel deserto e lo sentiva vivo nel seno morto di Sara, aveva umiliato la moglie in Egitto, fingendo davanti agli altri che fosse sua sorella. E quando “mercanteggiava” con Dio perché non distruggesse Sodoma e Gomorra, non credette fino in fondo, non ebbe il coraggio di chiedere al Signore di risparmiare le due città, anche solo per la presenza in esse di un giusto. E un giusto c’era a Sodoma: Lot.
Quel Mosè che aveva visto il Signore nel roveto ardente, nella manna, nella liberazione del suo popolo, dubitò che dalla roccia potesse scaturire l’acqua e, per la sua fede vacillante, non gli fu permesso di entrare nella Terra Promessa.
Quel Davide che da povero pastore era stato innalzato a re d’Israele e che tanto mirabilmente lodava Dio con i Salmi, con i Cantici e con tutta la sua vita, fu adultero, omicida e violento in guerra.
E chi non conosce il povero Simon Pietro, che giustamente ha due nomi per adombrare in lui il santo e il peccatore, l’entusiasta seguace e il rinnegatore, il miserabile e il fiducioso nella divina misericordia?
Questi quattro personaggi sono stati salvati grazie alla loro fede, al punto da essere chiamati, rispettivamente: “Padre nella fede”, “il più grande dei Profeti”, il “Progenitore del Messia” e il “Principe degli apostoli”. Se questi sono stati dichiarati grandi santi, vuol dire che c’è speranza anche per noi. Se, nonostante i loro limiti, sono stati capaci di compiere la volontà del Signore e di fare tanto bene all’umanità, vuol dire che pure noi possiamo diventare come loro. Già lo dicevano gli antichi Romani: «Si isti et illi, cur non ego? (Se questi e quelli, perché non io?)».
Al di là della nostra fragilità, dei nostri limiti e peccati, ci salva, ci rende grandi e santi la consolante e difficile fede, insuperabile mezzo per crescere in umanità, per trasmettere valori tanto più umani quanto più divini, per vivere in pienezza la nostra vita.
La fede cresce non tanto per pubbliche professioni, per decreti e per dimostrazioni, quanto per mozioni d’affetto, per esperienze forti, per incontri significativi, per attrazione. Lo ripete continuamente papa Francesco: la fede – pur sempre messa alla prova e ardua in sé e nella sua concretizzazione in opere di giustizia – nasce e si rafforza grazie alla bellezza e alla gioia di credere, al fascino che esercita, al suo potere di seduzione.
Dio Padre non ci seduce con la sua onnipotenza, ma inviandoci lo Spirito Santo che ci addita Gesù, la bellezza dei suoi gesti, l’armonia del suo insegnamento, ma soprattutto la sua scelta di diventare come noi. Cristo, nostro Fratello, ha imparato dal soffrire che cosa voglia dire essere uomo, ha cercato Dio nelle notti di preghiera e nel deserto, è stato tentato sempre, in tutto, fino all’ultimo momento della sua vita: «Dio mio, Dio mio, perché mi hai abbandonato?».
Si è fatto in tutto come noi per farci come Lui, santi al cospetto di Dio e destinati ad un eterno peso di gloria. Santi, non perché privi di peccati, ma perché costanti nel tornare da capo, ogni giorno, confidando nella divina misericordia.
Queste idee sono continuamente ribadite da papa Francesco che, richiesto a bruciapelo di esprimere la sua identità, risponde: «Non so quale possa essere la definizione più giusta… Io sono un peccatore. Questa è la definizione più giusta. E non è un modo di dire, un genere letterario. Sono un peccatore». Ma aggiunge anche: «Sì, posso forse dire che sono un po’ furbo, so muovermi, ma è vero che sono anche un po’ ingenuo. Sì, ma la sintesi migliore, quella che mi viene più da dentro e che sento più vera, è proprio questa: “Sono un peccatore al quale il Signore ha guardato”».
Peccatore cui Dio ha rivolto lo sguardo e che ha arricchito con le virtù teologali, così da poter confermare i propri fratelli nella fede e sostenerli nel loro difficile cammino verso il Signore.
Questo il compito del papa come vescovo di Roma, chiamato – come Pietro – a presiedere nella carità. E come lui, ogni vescovo della Chiesa universale ha lo stesso mandato, lo stesso privilegio e la stessa croce. La stessa estasi e lo stesso tormento.
«Sperò contro ogni speranza». Questa affermazione di Paolo nei confronti di Abramo, ci fa capire che la fede è possibile per chi spera e, sperando, ama. Forte di queste virtù, il credente affronta la fragilità, lo stato di conflitto, la marginalità e la crisi a tutti i livelli come opportunità per crescere in sapienza e grazia. Le difficoltà non turbano la speranza e non dissipano il sogno grandioso presentato nella lettera ai Romani: «La speranza nasce nei problemi che si affrontano forti della speranza stessa. È quell’andare oltre senza vedere realmente, ma sentendo sotto un tessuto di speranza, è quell’intravedere tipico dei contadini quando potano le piante per far rifiorire gli alberi: non vedono i frutti, ma li intravedono […] Dobbiamo essere responsabili, reciproci e oblativi, capaci di sfidare il mondo di oggi e di aprirci al nuovo, di includere il diverso in quanto ricchezza, di lanciarci verso il futuro senza rimanere troppo legati al passato» (Giancarlo Bregantini).
Uno sguardo di speranza sulla realtà genera speranza e fa in modo che avvenga ciò che umanamente parlando sembra irrealizzabile. Le situazioni di crisi attuale in tutto il Paese mettono in evidenza quella fragilità umana che la società tecnologica non elimina: «La speranza cristiana mostra in modo particolare la sua verità proprio nei casi della fragilità: non ha bisogno di nasconderla, ma la sa accogliere con discrezione e tenerezza, restituendola, arricchita di senso, al cammino della vita» (Convegno di Verona, 2006).

Icona di speranza per l’umanità ai nostri giorni, oltre a papa Francesco, è tutta la Chiesa che con lui soffre, gioisce e spera. C’è la schiera dei nuovi martiri, disposti a sacrificare la loro vita per testimoniare la loro fede, assieme alla bellezza e alla forza rigeneratrice del Vangelo. Ci sono tanti cristiani, nei più remoti angoli della terra, che fanno sfociare la loro fede e speranza in stupende opere di carità e di giustizia, trasformando la miseria in quella povertà che Cristo chiamò beata. Ci sono tanti preti, religiosi, vescovi e laici che, in situazioni difficilissime, sanno portare avanti dignitosamente il loro ministero, paghi solo di seguire le orme del Pastore “buono-bello”.

Nel desiderio di avere un orientamento per sconfiggere il male con il bene, il brutto con il bello, la menzogna con la verità, volgiamo lo sguardo a quei grandi della storia e a quei santi della Chiesa accennati all’inizio di queste riflessioni, considerandoli come icone di quello che siamo tutti noi, nelle nostre grandezze e nei nostri limiti, stimolo a sperare contro ogni umana speranza, per fare sì che la fragile fede e la delicata speranza sfocino nella carità che è la forza per vincere ogni paura e trasformare il limite in grandezza. Ciò sarà possibile se contiamo sui tempi lunghi: «La speranza si nutre di ascolto e di pazienza», afferma papa Francesco che ci sprona a non soccombere davanti alla prova, a non scoraggiarci per la nostra fragilità, a non lasciarci rubare la speranza, additandoci l’esempio della Vergine Madre: «Quando tutto sembra veramente finito e la speranza potrebbe dirsi spenta, quando, ricordando le promesse dell’Annunciazione, Maria potrebbe dire “sono stata ingannata”, lei continua a credere in questa sua fede e vede il futuro nuovo che attende con speranza il domani di Dio […] Tante volte io penso: non sappiamo aspettare il domani, guardiamo sempre l’oggi, l’oggi, l’oggi […] Ma anche nel sepolcro di Gesù, l’unica lampada accesa è la speranza della Madre, che in quel momento è la speranza di tutto il mondo. Guardando a Maria siamo chiamati a dare una testimonianza solida di speranza: lei è madre di speranza, ci sostiene nei momenti di buio, di difficoltà, di sconforto, di apparente sconfitta».

La sconfitta della croce. Sconfitta che il credente trasforma in vittoria, proprio grazie a quella fede che è fragile perché preziosa. Preziosa perché fragile.

Valentino