Se si perde l’indirizzo di Dio

Dovremmo premiare quella donna delle pulizie del museo d’arte moderna che, ignara del “capolavoro”, ha gettato nell’immondizia quei biscotti “rotti ad arte” ai piedi di una scultura, quale continuazione dell’estro dell’artista che ha chiesto migliaia di euro come risarcimento…

Mentre mi affascina moltissimo l’arte classica, confesso di non essere allenato a capire l’arte contemporanea: ogni tanto, quando ascolto le relative spiegazioni, riesco ad intravedere il bello delle nuove pitture e sculture. Ma il più delle volte resto allibito, chiedo che titolo sia stato dato ad un’opera che potrebbe rappresentare tutto e l’opposto di tutto. E la perplessità mia è aumentata da quando – parlando in un liceo artistico – mi sono sentito dire che è difficile creare un’opera d’arte oggi, dal momento che tutto è stato detto e che non si può dire più niente di nuovo. E questo dovrebbe valere anche per la poesia? Saremmo quindi condannati all’afasia? Dovremmo concludere che è morto il sentimento e la capacità di tradurlo in immagine?

Quando una persona mi chiede come si diventi artisti – nello specifico, poeti o scrittori –, non esito a suggerire di guardare intensamente la realtà, fare silenzio, percepire un’emozione e poi descriverla. Conservare tutto con cura, mettere in ordine alfabetico le proprie schede e – al momento opportuno – collegare le idee più belle, stendere il proprio componimento e mostrarlo a chi possa aiutare, con spirito critico, a fare progressi nell’arte di cogliere la bellezza quale splendore di verità.

Naturalmente, per raggiungere il capolavoro (realizzare se stessi o un’opera d’arte) non bisogna avere premura; non si deve legare il bello a “ciò che piace”, ma al vero; occorre allenarsi al passaggio dalla bellezza effimera alla Bellezza assoluta, al Bellissimo.

La bellezza dell’arte e della vita morale. È possibile vivere senza la bellezza? Di che cosa si nutre il nostro spirito se non del bello? Gli antichi Greci legavano il bello al buono. I filosofi e gli scrittori cristiani, per secoli hanno presentato la bellezza alla luce della verità, della bontà e dell’unità, vedendo in queste categorie il volto stesso di Dio. I pittori orientali – soprattutto ortodossi – prima di dipingere le loro icone pregavano, digiunavano, facevano lunghe giornate di silenzio: il risultato era talmente evidente che nessuno aveva bisogno di chiedere che cosa volesse esprimere il quadro, perché palpabile era la presenza del divino.

Per secoli, il bello è stato considerato una realtà oggettiva, non messa in discussione e assunta come categoria del divino. Questa idea è presente tanto nella teologia, quanto nel magistero pontificio. Nell’Evangelii Gaudium, papa Francesco sottolinea chiaramente come sia impossibile parlare della verità e del bene senza sfociare nella «”via della bellezza”… Non si tratta di fomentare un relativismo estetico, che possa oscurare il legame inseparabile tra verità, bontà e bellezza, ma di recuperare la stima della bellezza per poter giungere al cuore umano e far risplendere in esso la verità e la bontà del Risorto» (n. 167).

Queste idee, purtroppo, sono carenti nel mondo laico: sganciato dal  trascendente e legato all’impressione dell’osservatore, il bello non è considerato più un valore in sé, non è presentato come categoria fondamentale dell’estetica e della vita morale. Ne consegue – ha spesso ripetuto Benedetto XVI –  una caduta nel relativismo moderno (la “dittatura del relativismo”) che impedisce la nascita del capolavoro morale e artistico.

Il relativismo impedisce all’uomo di cogliere l’armonia del tutto, di avere validi punti di riferimento, di essere radicato in Colui che della bellezza è l’origine, il fondamento e l’essenza.
Parlare di Dio come fondamento del bello e della vita morale non significa abbozzare un discorso semplicistico, come se si dicesse che il credente, automaticamente, ha una marcia in più rispetto all’agnostico o all’ateo: chi mai ha visto Dio? Chi ignora la fatica del credente di cercare, giorno dopo giorno, il senso della sua esistenza, andando avanti come a tentativi nell’abbozzare strade che portino alla Bellezza assoluta? E queste strade passano attraverso il deserto, soffrono delle sfide del dubbio, conoscono la notte della fede e l’oscurità della paura che attanaglia il ventre: «E se tutto fosse un’illusione?».

Il mistero della croce. All’uomo di fede è rivelato, già nell’Antico Testamento, che il più bello dei figli dell’uomo, il Messia, sarà un servo sofferente, schiacciato, disprezzato e innalzato su una croce. Il Bellissimo perderà ogni aspetto attraente, sarà giudicato un maledetto, come ripete la Scrittura: «Maledetto chi pende dal legno». E «non ha figura né bellezza da attirare i nostri sguardi, né apparenza per farcelo desiderare. … simile ad un uomo davanti al quale ci si copre la faccia» (Isaia 53, 2-3).

Repellente o affascinante questo Uomo della croce? Incarnandosi, Cristo si rende partecipe della nostra umanità per rivelarci la nostra divinità e mostrarci fino a che punto il Padre ci ama. La croce è il momento della verità suprema. Un discepolo avrebbe potuto sbagliarsi nella sua concezione del Messia, vedendo Gesù compiere miracoli. Non così davanti alla croce, il cui valore è inequivocabile: permette di vedere la gloria di Dio, attraverso quella sconvolgente Passione che svela l’immenso abisso dell’amore del Padre per questa umanità: amore totale, senza limiti, che lo porta a donarci perfino la vita di suo Figlio, vittima d’amore.

La bellezza di Dio nasce dal dramma della croce. Un dramma che si svolge sulla terra affinché tutti lo possano vedere, a tutti sia data la possibilità di godere della
redenzione e tutti possano mettersi sulle orme del Maestro e trovare gioia sperimentando la bellezza di donarsi totalmente agli altri.

Lo scandalo della croce si muta in manifestazione di una inaudita bellezza, che si dipinge sul volto del credente che prega come Gesù, cerca il Padre nel deserto e nelle notti trascorse vegliando per sentire la sua voce, sale il Calvario – nuovo Cireneo della gioia – portando dignitosamente il suo fardello di dolore.

Ma è forse indispensabile ricorrere alla teologia per illustrare questo tipo di bellezza? Basta guardare i mistici, a qualsiasi religione essi appartengano: i loro digiuni per avvicinarsi al divino li rendono bellissimi. Basta guardare ai martiri, come Stefano, mentre veniva lapidato: «tutti nel sinedrio, fissando lo sguardo su di lui, videro il suo volto come quello di un angelo». Basta guardare a Madre Teresa di Calcutta il cui volto – sia quando pregava, sia quando curava un ammalato – rifletteva quella luce che proviene dal Datore della verità, della bontà e della bellezza che libera e salva quanti non perdono l’indirizzo di Dio.

Valentino