“Impoverire”: segno dei tempi

È scoccata l’ora in cui l’impoverire la Chiesa è un salvarla”. Questa frase si trova nel libro di Antonio Rosmini “Le cinque piaghe della Chiesa”, un tempo messo all’indice e rivalutato con la recente beatificazione del suo Autore. Impoverire la Chiesa: riportarla alla purezza delle origini, sganciarla dal potere economico, renderla essenziale, libera e liberante, incarnarla nella realtà quotidiana, fatta di cose semplici vissute con un cuore
sempre nuovo.

Questa è l’operazione più bella e profetica di papa Francesco nei confronti della Chiesa, che vuole povera e per i poveri. Una Chiesa che si impoverisce per salvarsi ed essere fonte di salvezza per quanti pongono in Cristo la loro speranza. Una Chiesa che ama le periferie, guarda al mondo con gli occhi dei “poveri” secondo lo spirito evangelico, prende le distanze dalla mondanità e – pur condannando il peccato – non giudica il peccatore, ma lo invita ad abbandonarsi fiduciosamente alla divina misericordia.

Un vento di rinnovamento radicale spira sulla Chiesa. L’abbiamo avvertito fin dal primo momento in cui papa Francesco è apparso alla loggia vaticana: si è inchinato davanti al popolo, ha chiesto la sua benedizione, dopo averlo salutato con un semplicissimo «Buona sera» ed essersi presentato come nuovo vescovo di Roma. Tutte cose normali, che hanno fatto andare in visibilio soprattutto i mass media: non si aspettavano che il Papa fosse semplicemente “un buon pastore”, un cristiano chiamato a reggere una diocesi che ha il compito di presiedere alle altre Chiese nella carità, nel buon esempio, nella santità legata non al ruolo, ma alla vocazione a vivere fedelmente il proprio battesimo.

Chi si stupisce per questi semplici gesti, per il modo normale di comportarsi del successore di Pietro, dimostra di avere uno strano concetto della Chiesa: stupore non colpevole, in quanto legato all’immagine che negli ultimi tempi si è andata costruendo della Chiesa e del papa, come se questi fosse un dio da venerare, relegato in un inaccessibile empireo, staccato dalla terra, dipinto con lo sguardo rivolto al cielo, non familiare con le cose terrene.

Papa Giovanni XXIII aveva iniziato un processo di “normalizzazione” del concetto di papa e di Chiesa e  il Concilio Vaticano II ha prodotto documenti bellissimi a questo riguardo, ma sono passati cinquant’anni in cui, alle dichiarazioni, non sono seguite le attese innovazioni. Poi lo Spirito Santo, al momento opportuno, ha spirato sui membri del Conclave come vento impetuoso,  per suscitare quei cambiamenti che Benedetto XVI aveva intravisto e ha reso possibili grazie alla sua eroica rinuncia all’esercizio
del ministero di successore di Pietro.

L’inamovibile può cambiare: questo il concetto importante rilanciato dalla rinuncia di Benedetto XVI. Dal concilio di Trento in avanti, abbiamo avuto un orientamento teologico e morale centrato su una Chiesa universale che prendeva le direttive da Roma, dalla Curia, dal Vaticano.
Potremmo dire che ne è sorta una morale etnocentrica, senza che le periferie del mondo, senza che le Chiese locali avessero il diritto di far sentire la propria voce e di esprimere l’essenza di un cristianesimo intriso delle caratteristiche delle culture locali.  Ora, la cultura non è una patina spalmata sulla pelle di una persona, ma è parte costitutiva della sua essenza. Non rispettare le varie culture implica condannare il cristianesimo ad essere una realtà superficiale, irrilevante e fonte di confusione: da qui, il sorgere di innumerevoli sette in Africa e nell’America Latina, ferite dal triste fenomeno del sincretismo, che porta un fedele a passare da una chiesa-setta all’altra, fino al punto da perdere completamente la propria identità.

Ed ecco il Papa che viene dall’America Latina proclamare la necessità di inculturare il Vangelo, rispettando le esigenze delle singole culture e delle diverse Chiese, in cui ogni vescovo, circondato dal suo clero, svolge il proprio ministero con la stessa logica con la quale il vescovo di Roma conduce la propria diocesi.

Papa Francesco parla di cambiamento e di conversione, a cominciare dal papato stesso. Si veda quanto dice a proposito nell’esortazione apostolica “Evangelii gaudium”. Conversione e cambiamento di stile di vita, di modo di pensare, di agire, di parlare, nella convinzione che la forma del nostro comportamento è parte della sostanza del messaggio che vogliamo portare al mondo. Con uno stile di vita conforme al Vangelo si rinnova la Chiesa che, automaticamente, darà luogo a cambiamenti radicali, a riforme sostanziali. Tutto ciò richiederà molto tempo, perché non sarà facile riformare la Curia, dare un nuovo governo alla Chiesa, mettere in pratica la collegialità dei vescovi che lavorino in sintonia con il papa, ridare il giusto valore ai laici nella Chiesa e soprattutto fare in modo che le donne si facciano sentire nella loro specifica funzione di dare al mondo ciò che solo esse possono offrire, nel dare vita alla vita.

Le mozioni dello Spirito. Giovanni XXIII è diventato papa in età avanzata. Qualcuno lo riteneva un papa di transizione… Altri temevano che fosse eccessivo indire un Concilio ecumenico e fosse troppo gravoso condurre la Chiesa in tempi di rapidi cambiamenti. E il santo Papa a qualcuno confidava: «Io non sono qui a governare la Chiesa, ma a cogliere le mozioni dello Spirito Santo nella Chiesa».
Benedetto XVI, cosciente dei cambiamenti storici e della necessità di condurre la Chiesa verso radicali riforme “con vigore di corpo e di spirito”, con motivazioni di tipo spirituale – confidando cioè nello Spirito Santo – ha fatto quel passo che solo uno sprovveduto può interpretare come
“scendere dalla croce”. E lui, giudicato un conservatore, ha compiuto il gesto più rivoluzionario della storia della Chiesa.

Ora papa Bergoglio, confidando nello Spirito Santo, entra misteriosamente in un processo di trasformazione della Chiesa, sapendo bene ciò che vuole e ciò che non vuole e confidando – giorno dopo giorno – nell’aiuto dall’alto, per capire dove debba andare. Non vuole una Chiesa ricca, autoreferenziale, centrata sul clero, legata alla mentalità mondana e scandalosa nel rifiutare ai fedeli di godere della divina misericordia.

Da vero gesuita, di fronte alle domande più scottanti risponde con altrettante domande, non per eludere il problema, ma per cercare di risolverlo collegialmente. Va ripetendo di essere figlio della Chiesa, per sottolineare che non vuole essere solo a decidere e per aspettare chi fa fatica a camminare seguendo il suo ritmo e i suoi passi. Fa capire di essere un fedele, battezzato, che si lascia condurre, giorno dopo giorno, dallo Spirito che fa scoprire “i segni dei tempi”. Si sente lui stesso cambiato e in posizione di cambiare, grazie a quel Vento che «soffia dove vuole e tu ne senti la voce, ma non sai da dove venga e dove vada». Compie un passo e poi sta a vedere.

S’informa sulle reazioni della gente e di quanti riesce a consultare. Ascolta. Valuta. Fa discernimento, tipico dei gesuiti… Compie un passo alla volta. Poi prega – e prega tanto – davanti al Santissimo, senza vergognarsi di
confessare: «A sera, ogni tanto, mi addormento in chiesa…». Dorme il corpo, ma lo Spirito alita su questo uomo che non teme di dichiararsi peccatore. Peccatore che confida nell’Amore misericordioso. Confida, appunto, di essere nelle mani dello Spirito Santo che gli suggerisce: «Camminando s’apre cammino».

Valentino