Pereyber, 5 Febbraio 2007

«... e ricorda solo le cose belle»

Sui neri scogli vulcanici di Pereyber nell’isola Mauritius, cullato dal dolce sciabordio delle onde, contemplo all’infinito il matrimonio tra un cielo azzurro e un mare turchino, sigillato dall’anello d’oro del sole al tramonto. Penso alla anziana signora sudafricana che, dopo una vita di schiavitù, di violenze e di sogni frustrati, di fronte ad un bel paesaggio sussurra: «Se vedendo il colore viola dei fiori di questa prateria una persona non è contenta, Dio si arrabbia».

Ed io, grato del privilegio di poter ancora cercare, trovare e sentire il Signore vivo nella vita di chi amo, mi lancio, riconoscente, nel canto del «Magnificat», ripetuto più volte come un mantra.

Ad un tratto scorgo un giovane nascosto nelle insenature degli scogli, che mi guarda incuriosito, forse perplesso. Sul suo viso si mescolano tratti orientali e lineamenti tipici del Corno d’Africa. Carnagione olivastra. Capelli scuri, lunghi e coda di cavallo.
Ha lo sguardo profondo che spesso cela la tristezza di chi, pur cercando, non trova la verità.

Con immagini, più che con parole, mi rende partecipe della sua vita.

Il padre, cattolico, è scappato dall’India, perseguitato per la sua ideologia e per motivi religiosi. La madre, etiope, cattolica di rito copto, l’aveva nutrito più di preghiere che di latte.
Chierichetto fin da bambino. Scuola cattolica. Scout. E poi la crisi, indotta da quegli amici che sembravano vivere bene anche senza Dio.

Joshouah, mentre mi offre tutta la sua vita nel racconto, m’immerge in un oceano di ricordi: storie simili, raccontate da tanti giovani o vissute direttamente da me, attraverso amici amati come figli. Lui non può sapere ciò che provocano in me le sue parole. Lo colpisce il mio lungo silenzio, lo sguardo all’infinito, e quell’inumidirsi degli occhi.

Anche il cielo ora rispecchia i miei sentimenti: improvvisamente crea una nube nera che si dissolve in una pioggia sottile sottile. Ma subito cessa la pioggia, allo smembrarsi delle nubi rubate da impetuoso vento. Nubi che adornano il cielo come immense vetrate, decorate d’oro dal sole già tramontato.

Ora Joshouah mi guarda intensamente: Padre, la mia storia ti rattrista?».

«Sono contento di te, della fiducia che hai posto in me… ma soffro per questa fragilità che non è solo tua, ma di tanti giovani, in tante parti del mondo».

«Quindi non sono solo io…».

«Molti, come te, si fanno del male, abbandonando Dio» .

Il suo sguardo sembra chiedermi di più, un racconto che possa mostrare attraverso la vita ciò che gli sto dicendo. Non gli interessano le analisi sociologiche, vuole capire dove batte il mio cuore.

Con lo sguardo nuovamente rivolto verso l’infinito orizzonte, parlo di un ragazzino, fiero della sua intelligenza, estremamente sensibile, capace di gratificare e donare quell’affetto che le persone mature fanno fatica a chiedere.

Tutti gli anni, di ritorno dall’Africa, trascorrevo due mesi in quel piccolo paesino sulle montagne, dove lui andava in villeggiatura con i genitori.

Veniva tutti i giorni in chiesa, mezz’ora prima della messa. A lungo suonava le campane, perché avrebbe voluto che tutti venissero alla mia celebrazione liturgica, che lui sembrava preferire ai giochi tipici della sua età. E quando io arrivavo al rintocco dell’ultima campana non esitava a dirmi: «Non l’ha ordinato il medico di arrivare all’ultimo minuto… E se qualcuno volesse confessarsi?….».

Nell’attesa, leggeva in anticipo la liturgia della Parola, per essere pronto a rispondere al momento dell’omelia, che era un dialogo del tutto interattivo con quei ragazzi che assistevano alla messa. Era fiero della sua familiarità e padronanza della Bibbia.

Sovente passeggiavamo al tramonto del sole, parlando in inglese, perché volevo introdurlo al mondo accademico e portarlo in Africa.

Venne con me in Etiopia. Aveva 17 anni. Lì non trovò quel mondo che io descrivevo in termini tanto positivi. Lui vide solo la miseria. E lì ebbe inizio la sua crisi.

Alla fine del liceo incontrò persone, intelligenti quasi come lui, che gli sembravano vivere bene anche senza Dio. Erano intelligenti, sensibili, comunque piene di valori. Gli devono essere sembrate felici. Cominciò a chiedersi se quel Dio di cui gli avevo tanto parlato – di cui lui stesso aveva tanto parlato – fosse davvero indispensabile. Volle provare il brivido di fare come se Dio non esistesse. Provò a non pregare. Sembrò non accadere nulla: il mondo gli sembrava uguale a prima, lui stesso non si sentiva cambiato.

Dio c’era o poteva esserci. Ma non dava più fastidio, col passare del tempo.

Naturalmente tutto ciò che avevamo seminato insieme nel suo cuore continuava a guidarlo, e lui di certo non si sentiva una persona peggiore. Si concentrava su se stesso, cercando di migliorarsi come aveva sempre fatto. Si dedicava ai suoi amici e alla scoperta dell’amore.

Lentamente s’insinuò l’abitudine a vivere senza Dio. E senza di me. Evidentemente non gradiva il prete che c‘è in me. Di fronte alla mia preoccupazione, ai miei tentativi di ristabilire un contatto, rispondeva con un sorriso. Quei sorrisi che si sentono anche ai due capi del telefono. Sorrisi… a volte sarebbe meglio uno schiaffo. Sembrava sereno, benché non avesse motivo di esserlo. Non vedeva il pericolo a cui andava incontro.

«Quando si strappa Dio dal cuore dell’uomo,con Dio si strappa anche il cuore». Nel meditare frasi come questa, non potevo non pensare a lui. Terrorizzato dall’idea che anche dentro di lui, assieme al divino, si potesse spegnere a poco a poco anche lo stupore per le cose, la gioia di vivere, la forza di reagire alle ingiustizie e alle storture del mondo.

Certo, ora che il mondo gli sorrideva, che gli si apriva in tutte le possibilità, Dio poteva sembrargli superfluo.

Ma la giovinezza è una fortuna pronta a sfuggire. E la sua vita non gli potrà apparire perfetta per sempre. Arriveranno le prime delusioni, i primi tradimenti, e allora chissà quali appigli gli si offriranno.

«Con Dio il mondo è mistero. Senza Dio è assurdo».

Il momento in cui si troverà a stringere tra le braccia nient’altro che l’assurdo, lo vedo e lo rivedo come in un incubo.

Sarà difficile, quel giorno, rivolgersi a un Dio di cui si sono perse le tracce, di cui non si ricorda il volto, il suono della voce.

Dio sarà lì, senz’altro, anche per lui. Ma è difficile ritrovare un amico di cui si è perso l’indirizzo.

Spero solo che quanto seminato non sia stato spazzato via dal vento, che non l’abbiano mangiato gli uccelli, che non sia stato soffocato dai rovi. Voglio sperare nel terreno buono delle sue qualità e della sua famiglia, in quel terreno arato insieme negli anni.

Chissà dov’era quel ragazzo, ormai quasi uomo. Chissà quanto rimaneva in lui di quel ragazzino che mi piaceva ritrovare ogni anno in quella chiesa tra le montagne.

Per quattro anni rispettai il suo silenzio. Poi un breve messaggio: «L’avere amato è il premio stesso dell’amore».

Più tardi la chiamata al telefono. Fiumi di ricordi. Parole orgogliose mascheravano la commozione di quella voce un tempo tanto familiare ed ora mutata. Tanti silenzi. I silenzi di due persone che si sono conosciute a fondo e che ora non sono più sicuri di chi ci sia dall’altra parte del telefono.

Silenzio.

«Ci sei ancora?».

Quante cose da dire! Troppo fragile il filo del telefono per contenerle.

«Ci sentiamo?».

«Sentiti con Dio, prima. Prova a chiamarlo: ‘Papà’. E del passato ricorda solo le cose belle».

Terminato il racconto, Joshouah , dopo una lunga pausa gravida di mistero, riprende:

«Ma adesso soffre per me o per il suo amico?».

«Per tutti e due».

«Ma in fondo quello non era che un chierichetto».

«Per me era come un figlio».

«Che cosa rende figlio un ragazzo che incontri?».

«La possibilità che gli offri di buttarsi nella vita, gli spazi che crei per lui, il desiderio che egli, sulle tue spalle, veda più in là di te, e la gioia di perdonargli i peccati».

«Padre mi renda figlio, ascoltando la mia confessione».

Per rispetto al sacramento si veste, si mette in ginocchio sugli scogli e, a testa bassa, si accusa davanti a quel Dio che rappresento. Gli do per penitenza di passare con me un’ora in silenzio ricordando le cose belle della sua vita. Quando alzo la mano per assolverlo, noto all’orizzonte la luna spuntare dal mare.

Assieme torniamo a cantare il «Magnificat», grati a quel Dio che non è interessato ai nostri peccati, ma alla nostra resurrezione e al ricordo dei momenti belli, quando il pregare era una festa.

Valentino