Silenzi animati dallo Spirito

“Racconto di un pellegrino russo”. Lo staretz (mistico della Chiesa ortodossa) di cui parla questo famoso libro sta contribuendo grandemente a incrementare un tipo di preghiera valida in tutte le culture e in tutti i tempi. Tra le tante testimonianze di persone che da lui hanno appreso la gioia di animare il silenzio con una continua preghiera, è particolarmente significativa quella regalatami da una suora di clausura.
 
«Io ho imparato a pregare così, con il pellegrino russo: il primo quarto d’ora incontri il tuo chiacchiericcio, tutti i tuoi fantasmi interiori e non cerchi di combatterli, ma li lasci emergere, consegnandoli tutte le volte a Gesù. È il modo per rompere le barriere tra l’umano e il divino: una noce, quando ti viene data, non la puoi mangiare così, devi rompere il guscio. Allo stesso modo, quando ti metti in preghiera, il primo quarto d’ora vengono fuori tutte le cose che non hai risolto, tutte quelle che ti sei dimenticato, quelle che ti danno fastidio, quelle che stai passando, ma possono essere anche le gioie che ci disturbano, le attese, le aspettative…
Tutte queste cose vanno consegnate a Gesù, dopo di che c’è il silenzio: cioè si cerca di creare dentro di sé, nella mente, una lavagna nera. A quel punto possiamo leggere la Parola: allora ci colpisce ciò che veramente risponde a un bisogno interiore. Su quella Parola si comincia a pregare, cioè sostanzialmente si ripete il versetto che più ci ha colpito. E ripetendolo, alla fine, nasce l’ultimo momento della preghiera che sfocia nella decisione di orientare di nuovo la nostra vita verso la volontà del Signore».
 
Per vincere la paura della notte. Peguy, nel testo “Il mistero della carità di Giovanna d’Arco”, parla della notte come del metodo educativo che il Signore ci dà per abbandonarci a Lui. Afferma che noi non siamo capaci di affidarci al suo amore misericordioso. Un grande nostro peccato consiste nell’incapacità di abbandonarci nelle mani di un Altro.
 
Nella notte è come se fossimo costretti ad abbandonare tutto quello che siamo e tutte le persone care, tutte le cose che viviamo, per affidarci completamente alla misteriosa volontà divina. Molte persone vivono la paura della notte: la sensazione di perdere tutto. Ma, proprio a questo punto, si lascia tutto senza cadere nel nulla. Si lascia tutto nelle mani di Qualcuno che ci ama, che custodisce la nostra vita, che ci educa ad affidarci totalmente alle sue braccia, grazie al privilegio della crisi (opportunità) creata dalla notte che ci aiuta a distinguere tra le paure positive e quelle negative.
 
Ne parla papa Francesco, nell’intervista fatta dai giovani fiamminghi, come risposta a una ragazza che gli ha posto una domanda a bruciapelo: “Di che cosa ha paura lei?”. E il Papa: «Di me stesso! Paura… Guarda, nel Vangelo, Gesù ripete tanto: “Non abbiate paura! Non abbiate paura!”. Tante volte, lo dice. E perché? Perché Lui sa che la paura è una cosa direi normale. Noi abbiamo paura della vita, abbiamo paura davanti alle sfide, abbiamo paura davanti a Dio… Tutti abbiamo paura, tutti. Tu non devi preoccuparti di avere paura. Devi sentire questo ma non avere paura e poi pensare: “Perché ho paura?”. E davanti a Dio e davanti a te stessa cercare di chiarire la situazione o chiedere aiuto a un altro. La paura non è una buona consigliera, perché ti consiglia male. Ti spinge su una strada che non è quella giusta. Per questo Gesù diceva tanto: “Non abbiate paura! Non avere paura!”. Poi, dobbiamo conoscere noi stessi, tutti: ognuno deve conoscere se stesso e cercare dov’è la zona nella quale noi possiamo sbagliare di più, e di quella zona avere un po’ di paura. Perché c’è la paura cattiva e la paura buona. La paura buona è come la prudenza. È un atteggiamento prudente: “Guarda, tu sei debole in questo, questo e questo, sii prudente e non cadere”. La paura cattiva è quella che tu dici che un po’ ti annulla, ti annienta. Ti annienta, non ti lascia fare qualcosa: questa è cattiva e bisogna buttarla fuori».

**Un volto irradiato dal silenzio.** Per motivi economici, una giovane è costretta a lasciare l’università e inizia a lavorare in una fabbrica. Racconta: «C’era insieme a me una ragazza, una collega che era cattolica praticante, neocatecumenale. Aveva sempre un volto molto cupo e c’era un nostro collega ateo convinto. Lui mi diceva che ogni volta che guardava lei, con quella faccia, si sentiva male e pensava: “Signore, se esisti, non farmi mai diventare cristiano”!
 
Io credo che la gioia del Signore debba trasparire dal nostro sguardo e da tutto noi stessi. Chi ci incontra deve essere affascinato dal nostro sorriso, deve incontrare una gioia, che è quella di Gesù, perché altrimenti vuol dire che non l‘abbiamo dentro. Se tu hai sempre qualcosa che ti incupisce, che ti rattrista, che ti deprime vuol dire che non sei aperta al Bellissimo, sei chiusa in te stessa.
Soltanto uno sguardo illuminato dall’Eterno – lo sguardo di chi sa stare in silenzio davanti al tabernacolo – può permettere all’altro un incontro col Mistero».
 
Se il nostro volto è irradiato dal silenzio, questo diventa luogo dell’incontro, perché si percepisce l’altro nella presenza più vera, non per quello che l’altro trasmette ma per quello che è veramente: c’è un incontro nella verità, un “cuore a cuore” che non mente, mentre le parole, a volte, sono rumore, inganno, mancata occasione di cogliere il Mistero.
 
Silenzio e senso della meraviglia. Nel silenzio, una persona incontra la parte più profonda e più vera di se stessa e questa parte invoca una totalità che solo Dio può dare come dono. Il secondo incontro è con Dio, dopo avere superato me stesso. Il terzo incontro è con l’altro, non per quello che mi può dare – c’è sempre il rischio di cercare l’altro perché mi serve, mi aiuta, mi fa star bene, mi piace… però sono sempre io l’oggetto! – ma per la gioia di cogliere lo Spirito: si va verso l’altro animati dal senso di stupore e di meraviglia.
 
In certi esercizi spirituali vissuti in rigoroso silenzio – anche durante i pasti –, di fronte a persone sconosciute, è bello osservare tutti con un senso di meraviglia: si apprende a conoscere gli altri guardando come si muovono, come vestono, come s’incontrano con gli sguardi. Questo guardarsi in silenzio è un inizio molto bello perché il silenzio – senza nulla togliere a quello personale – va anche condiviso: nella preghiera, nel deserto…
Quando, alla fine, si rompe il silenzio, si ha la sensazione di conoscersi già. Si bandisce la chiacchiera, si inizia a comunicare su valori eterni, grazie a quello Spirito che crea ponti tra le persone, tra l’umano e il divino, tra la terra e il cielo.

Valentino