La bellezza della vita di grazia

Grazia: amicizia con Dio. Bellezza di restare con Lui. Sogno di ritrovare in Lui quanti abbiamo amato qui, sulla terra. Gioia di scoprire che Dio fa il primo passo per darci il gusto di vivere e farci sperimentare la bellezza di essere da Lui creati a sua immagine. Quest’ultimo aspetto della grazia è messo in evidenza da un aneddoto di Bruno Ferrero.

«Il maestro raduna i suoi discepoli e domanda loro: “Da dove prende avvio la preghiera?”. 

Il primo risponde: “Dal bisogno”. 

Il secondo risponde: “Dall'esultanza. Quando esulta, l'animo sfugge all'angusto guscio delle mie paure e preoccupazioni e si leva in alto verso Dio”. 

Il terzo: “Dal silenzio. Quando tutto in me si è fatto silenzio, allora Dio può parlare”. 

Il maestro risponde: “Avete risposto tutti esattamente. Tuttavia, v'è ancora un momento da cui prende avvio e che precede quelli da voi indicati. La preghiera inizia in Dio stesso. È Lui ad iniziarla, non noi”» .

È Dio a chiamarci in intimità con Lui per renderci partecipi di quella bellezza di cui Egli è l’unico autore. Lui, il Bellissimo che ci attira a sé per renderci come Lui. Ha bisogno di noi? Qualcuno afferma di sì: l’Amore ha bisogno di creare, di espandersi, di comunicare. Chi non ricorda il famoso film degli anni Sessanta “Dio ha bisogno degli uomini”? 

Il sesto prefazio del lezionario romano recita: «Dio, tu non hai bisogno delle nostre preghiere, ma per un dono del tuo amore ci chiami a renderti grazie. Le nostre preghiere non aumentano la tua grandezza, ma donano a noi la grazia che ci salva».

Al di là dell’eventuale bisogno che Dio ha di noi e delle nostre preghiere, c’è il fatto che la vita di grazia, lo stare costantemente con il Signore, è “cosa buona e giusta”. È bello e rende bella la vita. Introduce alla speranza che tutto abbia un senso, che tutto sia grazia, che il meglio di noi vivrà eterno.

La grazia che sconfigge le brutture. Molti deplorano le brutture di questo mondo. Non pochi richiamano alla necessità di “porre dei paletti” e di essere esigenti nell’applicazione della legge e nel compiere il proprio dovere. Ma questo non basta a migliorare le cose. Occorre un supplemento d’anima e qualche cosa che motivi, affascinando, il nostro impegno quotidiano a convertire noi stessi e a creare la civiltà dell’amore. Qualche cosa che faccia comprendere e gustare la bellezza della lotta e della tensione costante alla santità: quella santità che non consiste nel non commettere errori, ma nella volontà di tornare sempre da capo. Certamente facendo qualche cosa si può sbagliare, ma a priori è uno sbaglio non tentare nulla per vincere il male. 

Ecco profilarsi la componente ludica della lotta per un mondo migliore: l’impegno deve essere visto come un gioco, come qualche cosa che serve a chi dà e a chi riceve, a chi si fa dono a tutti e a chi riceve il dono di un amore gratuito. Passare in mezzo alla gente facendo del bene, nella speranza che nulla e nessuno andrà perduto, come pregò il Maestro durante l’Ultima Cena.

Non basta la denuncia, non basta la legge, occorre coinvolgere l’altro nell’esperienza della bellezza che salva. La bellezza di realizzare ciò che San Tommaso definisce l’essenza di una persona: il bisogno d’amare e di essere amato. Il gusto d’amare e di dimorare nell’Amore, come magistralmente insegna l’apostolo San Giovanni. 

Chi crede in tutto ciò e, amando, diventa amore, sconfigge la propria e l’altrui morte, sorretto dalla fede che fa dire al credente: «“Signore, rimani con noi perché si fa sera, e il giorno già volge al declino”. Signore, nelle tue mani consegniamo la nostra vita».

La fede, sorretta dalla grazia, mette sulle labbra del credente la preghiera di Sant’Ambrogio: «Ti supplico, non separarmi dopo la morte da coloro che ho amato sulla terra. Ti supplico, Signore, permetti che si ritrovino con me coloro che ho amato e che lassù abbia la gioia della loro presenza, della quale sono stato privato troppo presto qui sulla terra».

La bellezza della preghiera. La gratitudine nei confronti del Signore, espressa nell’inno di una continua lode, è il canale che permette alla grazia di fluire nell’anima del fedele, per inondarla di doni. Chi entra in questa logica, sperimenta la preghiera come un privilegio e non come un obbligo, appunto perché ne vede la bellezza e la spontaneità, come afferma Teofane il Recluso: «Quando pronunciate la vostra preghiera, cercate di fare in modo che esca dal cuore. Nel suo vero senso, la preghiera non è altro che un sospiro del cuore verso Dio; quando manca questo slancio, non si può parlare di preghiera». 

La bellezza della preghiera è messa in evidenza da chi, come Tichon di Zadonsk, ne ha fatto l’esperienza per cui sente il bisogno di invocare così il Signore: «Dammi un cuore per amarti, dammi occhi per vederti, dammi orecchi per udire la tua voce, dammi labbra per parlare di te, il gusto per assaporarti. Dammi l'olfatto per sentire il tuo profumo, dammi mani per toccarti e piedi per seguirti».

Sublime, poi, diventa la preghiera eucaristica, che deve essere vissuta come una necessità dal cristiano, secondo la bella intuizione di San Pietro Crisologo: «La donna toccò il mantello di Gesù e fu guarita, fu liberata dal suo male. Noi invece tocchiamo e riceviamo ogni giorno il corpo del Signore, ma le nostre ferite non guariscono. Se siamo deboli non dobbiamo attribuirlo al Cristo, ma alla nostra mancanza di fede. Se infatti un giorno, passando per la strada, egli restituì la salute a una donna che si nascondeva, è evidente che oggi, dimorando in noi, egli può guarire le nostre ferite».

Chi familiarizza con queste idee, sente tutto l’imbarazzo di fronte a coloro che pongono il problema quanto grave sia il peccato di chi non partecipa all’eucaristia domenicale. Nel passato, forse, il precetto che imponeva sotto pena di peccato grave la partecipazione alla messa domenicale – come l’obbligo di confessarsi una volta all’anno e di comunicarsi almeno a Pasqua – ha dato alcuni risultati positivi, grazie alla sensibilità dei tempi, alla bellezza delle liturgie, al fascino dei canti e della musica in tempi in cui, per onorare il Signore, non si temeva di costruire stupende cattedrali e ricorrere a compositori famosi: si pensi alla Messa da Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart, all’“Hallelujah” di Händel, alle messe di Giovanni Pierluigi da Palestrina…

Oggi non si accetta più l’imposizione, mentre ha ancora la sua efficacia l’invito. Non «Tu devi», ma «Tu puoi». Ma la sensibilità dei tempi moderni impone di fare maggior attenzione al culto del bello. Spot pubblicitari affascinano gli spettatori della televisione. I giovani si abituano ad immagini accattivanti, sia pure menzognere… Si può ancora chiedere ad un cristiano di “sopportare” un’eucaristia domenicale per evitare di andare all’inferno? Il nostro Dio, amante della bellezza, esige che i fedeli siano attratti dal fascino del sacro. Naturalmente non ci si deve aspettare di percepire il divino, ad ogni costo, tutte le domeniche: «C’è un tempo per ogni cosa». Il tempo dell’esperienza mistica, il tempo della fedeltà alla parola di Dio, il tempo dell’aridità che può essere superata dando un anticipo di fiducia alla comunità: quando non sento nessun trasporto a partecipare all’eucaristia, il pensiero che la mia presenza aiuti altri a pregare è sufficiente per dare un grande valore a un gesto buono e, come tale, bello. 

Bello agli occhi del Signore che gradisce lo sforzo di trovarsi assieme, nel giorno a Lui consacrato, per chiedere perdono dei propri peccati, per ascoltare la Parola di vita, per nutrirsi del Pane eucaristico, nella certezza che Parola e Pane diventano energia divina per amare il Prossimo.

Valentino