«Ma dove avrò sbagliato, Dio?»

«Ma dove avrò sbagliato, Dio?»

In un incantevole angolo della Sicilia, in riva al mare, in una chiesetta costruita su una roccia e immersa in un giardino di asfodeli avevo incontrato – all’inizio degli anni ’90 – una donna in preghiera davanti a un simulacro della Vergine Madre. Piangeva.

Per un momento contemplai Maria e quella donna, pensando – facile profeta! – che quest’ultima avesse il cuore pesante, a causa dei problemi creati dai figli. Lì, le due Madri, alla ricerca di un’intesa e di quella consolazione e quell’aiuto che solo la fede può offrire.

La madre siciliana soffriva per i suoi due figli maggiori che non onoravano più il comandamento “Ricordati di santificare le feste” e avevano atteggiamenti dai quali era facile intuire tante trasgressioni nei confronti della morale cattolica. Trovava solo consolazione nell’ultimogenito: ragazzo “prodigio”, intelligentissimo, amante del pianoforte, amico del parroco che intravedeva in lui un futuro, santo sacerdote.

Dopo vent’anni, l’aspirante alla santità è un vero e proprio disastro. Non solo non crede in Dio, ma lo bestemmia e lo irride. Si è “specializzato” nello studiare tutti gli errori della Chiesa da Costantino ai giorni nostri. Non lavora e non cerca neppure un impiego. Convive con una ragazza che non lo stimola alla ricerca della verità che libera e dà un senso alla vita.

Per anni la mamma siciliana ha sofferto e pregato. Ora si rivolge a me, confidandomi la sua preghiera quotidiana: «Illuminami, Signore, a capire in che cosa ho sbagliato».

In una cittadina del Friuli, al termine di una conferenza, una donna mi accosta per invitarmi a pranzo. I suoi due figli avevano partecipato ai miei campi scuola. Il maggiore, a trent’anni, sta ancora cercando di discernere la sua vocazione, incerto se consacrarsi all’arte o a Dio. Il minore ha in mente solo la moto. Un tempo pregava in famiglia, ora non più. Per comunicare con lui si può solo parlare di ciò che lo interessa, in montagna, con quel suo roboante motore che gli serve per “scaricare i nervi”. Sarebbe bello se l’ambiente montano fosse per lui fonte di contemplazione, e non semplicemente una pista per la moto!

La madre friulana, seduta accanto al focolare, parla dei suoi genitori – ora anziani – arricchiti da un benessere economico, ma soprattutto dalla fede. Parla del marito che ha realizzato una bella impresa e che ancora prega, da solo, deludendo un po’ le sue aspettative di cercare Dio assieme a lui. Parla soprattutto del secondogenito, nella speranza che lo inviti a fare quattro passi con me, per riportarlo ai valori essenziali della vita. E pure ora torna la stessa domanda: «Ma dove avrò mai sbagliato, Dio?». Da me si attende il perdono del Signore e un suggerimento, un punto di partenza dal quale ricominciare un cammino verso valori etici e morali.

Nulla è mai seminato invano. Benché sia naturale che una madre soffra per i limiti, gli sbagli e i peccati dei figli, la può consolare il pensiero che nella vita è importante seminare, senza attendersi di vedere sempre il risultato del proprio lavoro. Seminare abbondantemente, su ogni tipo di terreno, sulla strada e anche tra i rovi, come adombrato nella parabola di Gesù. Seminare serenità, sorrisi e tanta speranza. E confidare nella preghiera di Cristo: «Padre, nulla vada perduto». Il figlio può sbandare, uscire di casa sbattendo la porta e ridursi a “rubare le carrube dalla bocca dei porci”… L’esperienza del male lo farà ritornare alla casa paterna migliore del primogenito, che prende per scontati i beni della sua famiglia: la fede, l’affetto e il pane quotidiano.

L’urgenza di una sensibilità morale. In una società in cui si sono persi i valori etici, alcuni teologi si sforzano di porre le basi per una antropologia che permetta di rifare le fondamenta del vivere comune. Comprendono l’urgenza di studiare e proporre una filosofia e psicologia che consentano un dialogo interdisciplinare, in risposta alle esigenze di questa generazione di godere di valori condivisibili da tutti.

Senz’altro occorre studiare, in modo approfondito, le istanze fondamentali della nostra esistenza, con lo scopo di avere un linguaggio e un metodo di comunicazione che attirino soprattutto l’attenzione dei più giovani. Essi hanno una grande sete di senso, di valori… di Dio, ma non trovano pozzi con acqua fresca, abbondante e buona.

Hanno bisogno di essere “sedotti” da ideali e comportamenti che, nella loro bellezza, diano vita a una nuova sensibilità etica e morale, mentre creano una cultura in cui i valori siano comunicati per connaturalità.

Un bambino impara ad amare semplicemente perché è amato dai suoi genitori. Sviluppa orientamenti negativi se percepisce in essi tensione, aggressività e possessività. Diventa “bello” – e per bellezza s’intende “splendore di verità”, come vedremo nella prossima riflessione – se circondato da persone “belle e buone”. Per questi motivi possiamo ritenere che l’etica e la morale debbano innanzitutto essere rifondate da coloro che sviluppano – spontaneamente o con arte (cioè attraverso un costante sforzo nel praticare il bene) – il “gusto” delle cose belle e buone.

Il concetto di “gusto” ci rimanda allo Spirito Santo dal quale proviene la vera sapienza. Questa parola, in latino, esprime l’idea del gustare le cose, percepirne i valori aprendo la mente, le labbra, il cuore e le mani al divino – che è anche squisitamente umano – per fare del proprio corpo un santuario in cui abita la Trinità, fonte del nostro agire “bello e buono”:

Apri la mia mente

Spirito Santo, Amore,

perché intenda il linguaggio

dell’eterna Parola,

tesoro da cui trarre

verità antiche e sempre nuove.

Apri le mie labbra,

Spirito d’intelletto e di consiglio,

per cantare e lodare

il santo nome di Gesù

mio Dio e Fratello,

mio scudo e fortezza.

Apri il mio cuore

Spirito di sapienza e di scienza

a una continua conversione

per celebrare le meraviglie del creato,

nutrirmi del Pane di vita,

amare e testimoniare il Vangelo.

Apri le mie mani,

Spirito di fortezza e pietà

per tradurre in opere di giustizia

l’affascinante proposta di fede

che mi addita, nel più piccolo dei fratelli,

il mio Signore e mio Dio.

Valentino