Misterioso rapporto fra bellezza e croce

«Da un po’ di tempo vedo tutto nero. Lei che scrive tanto sulla bellezza, mi può indicare quale bellezza mi potrà salvare?».

«Guarda come è bella!». Così mi accoglie l’amico di lunga data, mentre mi addita la moglie cinquantenne, ben composta nella bara. Nella stanza c’è profumo d’incenso. Sottofondo musicale. Su un video scorrono immagini dei momenti lieti della vita familiare.
Il figlio maggiore mi accoglie con un delicato abbraccio: sa quanto voglia bene a suo padre e mostra la sua gratitudine con un bel sorriso. Più passionale il secondogenito che, dopo un forte abbraccio, lascia la stanza senza alcun commento.

Durante il funerale i due fratelli sono lì, proprio sotto il pulpito da dove cerco di parlare di tutto per non dire nulla della defunta. Dei morti, tutti dicono sempre cose belle. Io parlo dei vivi, ricordando ciò che rende ancora bello e significativo continuare a vivere. Sono lì, i fratelli, mano nella mano, amalgamati e abbelliti dalla sofferenza.

Nove mesi prima, al funerale della loro nonna, avevo commentato una frase che ovunque vado ripetendo: «Una tomba è troppo piccola per contenere il mio amore. Risorgerò». E il secondogenito, affascinato dalle citazioni poetiche di quanti, amando la vita, hanno saputo amare anche la morte, aveva voluto fare due passi con me, parlando, parlando… fino a tarda notte, facendo emergere gli stessi problemi che aveva suo padre, da giovane. Seduti sul muretto del cimitero, guardando le tombe e sforzandoci di passare dalle tenebre alla luce, avevamo concluso che lì non riposano i nostri morti. Lì ci sono solo delle reliquie. Ma i nostri cari defunti s’incontrano, vivi, attorno all’altare, rivivendo il mistero della morte e resurrezione del Signore.

Al funerale della nonna si può essere sereni, ma quando viene a mancare la madre, tutto si rompe dentro di noi e il cuore reclama ragioni che vadano oltre la ragione stessa. Il secondogenito questa volta viene a cena a casa mia e parla senza sosta: mi fa ricordare il mio padre e maestro, Bernhard Häring: «Ci si cura con la logoterapia. I giovani hanno tanto bisogno di parlare. Ma chi li ascolta?». Probabilmente non hanno bisogno di risposte, ma di persone convinte che, mentre il mondo è pieno di un amore astratto che non salva nessuno, ciascuno di noi ha bisogno di rapporti belli, di relazioni vere… di sentirsi amato.

Sussurro al giovane amico quanto mi diceva mia madre, allorché mi vedeva distrutto per la morte di mia sorella Elisa: «Valentino, se vuoi andare avanti, cerca di ricordare solo le cose belle». Aggiungo una preghiera, perché capisca l’importanza di amare se stesso.

Dopo il fiume di parole, rincasato, il secondogenito mi chiama al telefono: «Ma tu ti ami? E che cosa vuol dire amare se stessi?». Non ho bisogno di dire molte parole perché il “miracolo” sta già capitando: il dono delle lacrime.

Quando nella nostra esistenza vediamo tutto nero, quando tutto sembra assurdo, quando siamo tentati – come Sant’Agostino dopo la morte dell’amico Nebridio, amato più di se stesso – di gridare al sole che non ha diritto di splendere sul dolore umano, si abbozza una speranza di salvezza per chi vive cercando. Speranza legata all’istinto di sopravvivenza, per cui s’intuisce che, se tutto deve avere un senso, soprattutto la sofferenza non può essere fine a se stessa. Deve avere la stessa logica del parto e condurci a scommettere che anche la morte è fatta per far emergere il bello.

«Guarda come è bella», dice l’amico contemplando la moglie che una lunga malattia ha devastato, ma non rovinato. È ridiventata bella. Ma se anche fosse svanita la bellezza estetica, la bellezza dell’anima resta eterna.

Quale bellezza ci salva? La bellezza della Pasqua e “il Bellissimo”, Colui che risorgendo ci rigenera alla vita e ci fa gridare: «Dov’è, morte, la tua vittoria? Dov’è, morte, il tuo pungiglione?».

Il più bello dei figli dell’uomo, Gesù, ci prospetta una salvezza non legata a discorsi convincenti sul significato del vivere e del morire, ma all’invito a metterci sulle sue orme: trent’anni di silenzio a Nazareth, quaranta giorni nel deserto, notti in preghiera e un cammino verso Gerusalemme, là dove il profeta è messo a morte, fuori dalle mura. Morte che profuma di resurrezione.

Non parla molto, ma ama molto. Non dimostra nulla, ma si mostra vero. Non pretende di rivoluzionare il mondo, ma di scuotere le coscienze. Non propone dogmi, ma la sua persona. Non lotta contro il male, ma lo accoglie nel suo corpo e lo sconfigge sulla croce.

Passa in mezzo a noi facendo del bene, grazie alla forza che emana dal suo corpo. La sua bellezza fa intravedere la sua origine divina che Egli propone a noi, parlando ai nostri cuori, facendo vibrare le più intime parti di noi stessi, insegnandoci un canto che inizia qui su questa terra ed è destinato a rallegrarci per tutta l’eternità.

Non una bellezza astratta ci salva, ma Lui, il bellissimo Figlio di Dio che si è fatto corpo per comunicare a noi la bellezza della divinità. Egli è stupendo anche nell’ora del dolore, come ci mostrano i volti di Cristo dipinti nei vari secoli: tutti portano un’impronta misteriosa che mette in contatto con il divino. Sono un’eco del Volto impresso sul lino della Veronica, nome non scelto a caso. Significa: “vera icona”. Ed è lei, Veronica, l’icona del Figlio di Dio, così come lo siamo tutti noi, nella misura in cui ci alleniamo a vedere pure nel dolore la misteriosa presenza del Padre, che sempre ci è accanto, soprattutto nell’ora della prova, del dolore e della morte.

Quale bellezza ci salverà? Per chi accetta la follia evangelica, nulla di più affascinate e sconvolgente della risposta: «La bellezza della croce». Per questa affermazione non c’è spiegazione logica, ma un semplice rimando alla vita di Cristo e a quella dei suoi seguaci che, nel dolore convertito in dono per eliminare le ingiustizie, non solo si sono realizzati, ma hanno abbracciato la croce come potente vessillo di salvezza.

La croce. Il Crocefisso-Cristo. Lui non si dimostra: si adora. Solo in ginocchio si comprende. Solo in ginocchio ci salva: Lui, il più bello dei figli dell’uomo.

Valentino