«Genitori, onorate i vostri figli»

«Quando ero piccolo m’insegnavano ad ubbidire ai genitori. Adesso, a chi devo obbedire? Sono ancora un figlio, ma, per il momento, sembra che i miei genitori non abbiano bisogno di me. Faccio fatica a pensare di dover ubbidire ad una legge astratta e a politici che non mi rappresentano. Quanto alla Chiesa… non mi chiede nulla di specifico, eccetto precetti che non mi pesano, perché sono alquanto generici e interpretabili a piacimento. Come vivere, allora, il quarto comandamento?».

«Onora tuo padre e tua madre, perché si prolunghino i tuoi giorni nel paese che ti dà il Signore, tuo Dio» (Es 20,12).
«…stava loro sottomesso» (Lc 2,51).
Lo stesso Signore Gesù ha ricordato l’importanza di questo “comandamento di Dio”. L’Apostolo insegna: «Figli, obbedite ai vostri genitori nel Signore, perché questo è giusto. Onora tuo padre e tua madre: è questo il primo comandamento associato a una promessa: perché tu sia felice e goda di una vita lunga sopra la terra» (Ef 6,1-3).
Con questi riferimenti biblici, il Catechismo della Chiesa Cattolica inizia il commento al quarto comandamento. Di questo vorrei parlare nella cornice del concetto teologico della “grazia di stato”.

Quando una persona assume un incarico in ogni campo, le viene concessa la “grazia di stato”, consistente in un particolare aiuto della Provvidenza per poter espletare al meglio il suo ministero a servizio della comunità. Se, ad esempio, è stata eletta per essere parlamentare, pregando riceve l’aiuto indispensabile per compiere il proprio dovere nel miglior modo possibile. Certo, deve essere nelle condizioni di svolgere la propria attività con una coscienza pura, dopo avere raggiunto quella posizione senza brogli, senza aver denigrato altre persone, senza aver corrotto la gente per farsi votare.

Lo stesso discorso vale per chi assume un posto di responsabilità nella Chiesa: se lo fa per servire e se è stato scelto, il suo incarico sarà fonte di serenità perché, qualunque cosa capiti, egli si trova in un particolare ufficio per obbedienza. Di fronte a una situazione difficile o a risultati – umanamente parlando – discutibili, l’interessato può sentirsi giustificato dicendo: «Signore, non ho scelto io questa croce…». Quando si assume un posto di responsabilità, non soltanto si capisce il valore dell’obbedienza, ma ci si rende conto che si è chiamati a obbedire innanzitutto a Dio, poi alla comunità in genere e, infine, alle persone che dovrebbero obbedirci ma alle quali, in pratica, noi obbediamo. Obbedienza da intendersi come “essere al servizio dei sudditi”.

“Sudditi”: parola bruttissima per chi la fraintende, come l’altra analoga: “sottomessi”. Molte volte i cristiani si sono ribellati di fronte a queste due parole, che si trovano nella Bibbia riferite ai figli e alle mogli. Il povero San Paolo ne ha fatto le spese a motivo della frase, citata spesso priva del contesto: «Le donne siano sottomesse ai loro mariti». L’equivoco si chiarisce se si considera il Vangelo di Luca, là dove si dice che Gesù era sottomesso ai suoi genitori. Il verbo “sottomettere” non indica dipendenza quasi servile, bensì capacità di trovare armonicamente il proprio ruolo all’interno di una situazione, in particolare all’interno della famiglia.

Che questo sia il pensiero di San Paolo, lo si capisce allorché si cita la sua frase nel contesto e con quanto segue: «Le donne siano sottomesse ai loro mariti come al Signore, perché l’uomo è capo della donna come anche il Cristo è capo della Chiesa (…) Mariti, amate le vostre mogli come il Cristo ha amato la Chiesa…». Niente dipendenza e obbedienza cieca, ma ricerca di un rapporto d’amore.

Nell’Antico Testamento sta scritto: «Ecco, io vi invio Elia il profeta, prima che venga il giorno del Signore, grande e spaventoso! Egli ricondurrà il cuore dei padri ai figli e il cuore dei figli ai padri…» (Ml 3,24). San Luca, quando riporta questa profezia (Lc 1,17) la dimezza: «Egli stesso (Giovanni Battista) andrà innanzi a Lui con lo spirito e la forza di Elia, per riportare i cuori dei padri verso i figli…». E non viceversa. Con questa citazione dimezzata, vuole indicare che la vita procede verso un futuro illuminato dalla presenza dei figli. I genitori innamorati della vita, alla nascita dei loro figli, “si rifanno il sangue”. Si mettono a loro disposizione. Imparano da loro a vivere. Sono contenti di mettersi al loro servizio. Obbediscono ai figli. Capiscono che il vero senso del quarto comandamento – viste le necessità della presente generazione – potrebbe essere così espresso: «Genitori, onorate i vostri figli».

I figli vengono al mondo con un progetto che non è quello dei genitori, ma di Dio. Tocca al papà e alla mamma inginocchiarsi accanto alla culla del neonato e pregare incessantemente, per capire che cosa Dio voglia dal loro figlio. Intuita la volontà divina, potranno suggerire alla loro creatura grandi ideali e aiutarla a volare in alto. Non dovranno mai ostacolare la sua volontà, specialmente quando la esprime non per soddisfare i propri comodi, ma per essere un dono a Dio e alla società.

Molte volte mi è capitato, in buone famiglie cattoliche, di chiedere a un giovane o ad una ragazza se abbia preso in considerazione la possibilità di farsi prete, suora o laico impegnato in un casto celibato al servizio dei poveri. Quasi sempre uno dei genitori impallidisce, si innervosisce e cerca scuse: «Prete? Proprio lui! Ogni tanto salta la messa alla domenica»; «Ha un carattere schifoso»; «Non è per nulla ubbidiente»… In pratica sono tutte razionalizzazioni: i genitori vogliono i nipotini e temono che l’essere al servizio di Dio nella Chiesa implichi troppi sacrifici e rinunce, soprattutto a causa del celibato.

In sintesi, una persona deve rendersi conto di essere chiamata ad obbedire innanzitutto a Dio. Questi ci dà la sua Legge, la sua Parola, i suoi Precetti come segno di amore per questa umanità bisognosa di grandi ideali e – al tempo stesso – di chiarezza, di un cammino ben definito, con precisi “paletti” per non smarrirsi e non soccombere, perché «lo spirito è pronto, ma la carne è debole». Si legga il lunghissimo Salmo 118: inno alla Legge, obbedendo alla quale il fedele può raggiungere la perfezione. Legge che Gesù illuminerà e trasformerà in un amore più esigente della legge stessa. Amore che rende l’obbedienza non un peso ma un mezzo assunto anche da Cristo che “imparò dal dolore l’obbedienza al Padre”. Imparò, in altre parole, quanto sia liberante cercare la volontà di Dio, perché solo in essa si può trovare la vera pace.

Valentino