Speranza generata dalla fede

«Ho sentito una sua omelia nella quale, dopo aver accennato ai problemi dell’Africa, soprattutto alla tragedia di chi muore di fame, ha intonato un inno alla fede e alla speranza degli Africani. Purtroppo non mi colpiscono più le statistiche sui mali del mondo: penso che l’umanità non sia cambiata molto rispetto al passato. Le tragedie ci sono sempre state. Ora poi la crisi c’è pure da noi … Mi è piaciuta la frase in cui dice che siamo giovani come il nostro ottimismo e vecchi come la nostra disperazione. Vorrei capire se in Africa veramente c’è la speranza oppure se è lei che cerca ad ogni costo di mettere in evidenza il fatto che l’uomo di fede diventa automaticamente anche un uomo di speranza».

Quando si farà la storia del nostro tempo, non si parlerà tanto male di Hitler o di Stalin, quanto del silenzio degli “onesti”: con simili parole Gandhi stigmatizzò la sua generazione. Nel passato la gente moriva di fame, ma il mondo cosiddetto civilizzato non lo sapeva. Ora gli “onesti” tacciono, pur sapendo tutto di tutti.

Ci si abitua a tutto. Tutto è pura statistica e dietro ai numeri non si vedono le persone, perciò si rimane indifferenti di fronte al “martirio” dei poveri Africani. Si soffre alla vista di un gatto schiacciato da una vettura e si lascia la chiesa senza sentimenti di umana compartecipazione di fronte al missionario che da tanti anni parla della situazione dell’Africa, cercando di alleggerirla con immagini che aprano alla speranza .

Dire che siamo giovani come il nostro ottimismo, non significa chiudere gli occhi alla realtà e nemmeno ricorrere a quell’ingenuo e ingiustificato sentimento che fa vedere bella e solida la casa fatiscente e in rovina, solo perché la amiamo.

L’uomo di fede scopre la sua improrogabile vocazione alla speranza: Dio-Amore non cessa di reggere i fili della storia e dei destini umani. Egli sa far leva su ogni valore positivo, su ogni atto, anzi, su ogni anelito di bontà per far fiorire il cammino dell’uomo. Il Creatore dell’universo è in grado di trasformare in giardino il letamaio. Come potrebbe un infinito Amore, all’opera dagli inizi dei tempi con un mirabile progetto, abbandonare a sé un mondo per salvare il quale non ha esitato a donarci suo Figlio?

Se uno ha l’occhio di fede, per istinto riesce a vedere ‘dentro le cose’ e a respirare speranza. Chi invece resta in superficie, entra inevitabilmente in crisi: la sua speranza viene sommersa dal quotidiano rigurgito del male che sembra paurosamente guadagnare terreno sul bene.

La cronaca dei quotidiani e i notiziari televisivi continuano a propinarci una ridda di eventi crudeli: violenza e inganno, doppiezza e ipocrisia, egoismo e crudeltà. Molti Occidentali, alcuni in buona fede, forse si abituano alla disgrazia e cadono nell’individualismo: si ripiegano su se stessi, a volte anche solo per non soffrire o perché si sentono impotenti di fronte ai mali del mondo.

Diversa è la reazione della maggior parte degli Africani: al di là di tutti i compromessi e di tutti i tradimenti, e nonostante tutto il disastro economico e sociale che li opprime e che dovrebbe condannarli a una disperazione senza appello, sanno sperare, continuano a sorridere, non smettono di danzare.

Chi insegna ai teologi o fa conferenze all’università si aspetterebbe critiche violente contro i mali subiti da sempre dagli Africani. Gli abitanti della regione sub sahariana hanno subito prima la tratta dei negri da parte degli Arabi, poi sono giunti gli Europei: schiavismo, colonialismo, neocolonialismo, ricolonialismo. Adesso sono invasi dai Cinesi che portano via materie prime e riciclano tutto e invadono i mercati. Chi non si aspetterebbe reazioni violente?

Molti Africani perdonano la ferita infera ai più di trenta milioni di schiavi trattati come bestie e strappati dalle loro radici. Perdonano quanti hanno devastato tutto il tessuto sociale e distrutto le economie di sussistenza, certamente con la complicità e le atroci connivenze di capi e re locali, corrotti e traditori dei loro fratelli. Perdonano il triste periodo del colonialismo e il fatto che l’indipendenza per molti stati consistette nel buttare allo sbaraglio un popolo chiamato ad essere autosufficiente, senza quadri dirigenti preparati, senza scolarizzazione, senza ospedali. Indipendenza di nome, con leader corrotti, manipolati della ex potenze coloniali.

I missionari hanno cercato di alimentare la speranza degli Africani dicendo, tra l’altro, che gli Occidentali erano ben coscienti dei bisogni dell’Africa e che, nel giro di pochi anni, con il nostro superfluo, avremmo potuto abbondantemente aiutare i popoli in via di sviluppo ad arrivare all’autosufficienza e all’autogoverno. Dopo tanti anni, la situazione economica è peggiorata, ma non è venuta meno la speranza.

Noi missionari senz’altro abbiamo commesso errori, non fosse altro che di metodo, ma siamo stati perdonati da quanti hanno captato la nostra fede e il nostro amore per persone da noi considerate fratelli e sorelle.

Non sappiamo che cosa abbiamo seminato tra quella gente, mentre ci è chiaro quello che abbiamo appreso da loro. Siamo stati testimoni di una fede basata su queste fondamenta: la centralità dell’uomo nella sua dignità e nobiltà intrinseca, sempre meritevole di rispetto e di accoglienza; la priorità delle relazioni umane: un valore irrinunciabile perché la vita va danzata coral-mente; il valore della Comunità: “Io sono perché noi siamo”; l’ordinamento sociale (tribù, clan, famiglia estesa) dove nessuno mai è solo, nessuno mai è orfano, e nessun anziano è inutile; la magnanimità di fronte alle debolezze, al limite, fisico o morale: ognuno è accettato per quello che è, e trova un suo ruolo ben preciso da giocare in seno alla comunità; la gioia – o meglio la felicità – come diritto di tutti e di ciascuno e mai condizionata dall’avere o dal fare, ma dall’essere; una fede semplice e a tutta prova, anche contro ogni evidenza contraria: una fede che non si lascia mettere in crisi dall’esperienza del male o dallo scandaloso silenzio di Dio; la serena certezza di un garantito perdono ogniqualvolta uno si accorga di aver tradito o di essere stato tradito; la convinzione che la nostra felicità non sarà mai tale se escludiamo qualcuno dal banchetto della vita.

Valentino