Apocalisse: la beata-divina sofferenza

«Mi ha spaventato l’Apocalisse: cavalli e cavalieri che seminano ovunque morte; coppe colme dell’ira di Dio che sconvolgono la terra; disastri al rompersi dei sette sigilli. Perché tanta sofferenza? Che lezione si può ricavare da queste pagine che grondano sangue?».

Quando, in Terra Santa, parlando di Gerusalemme, richiamavo gli uditori alla patria eterna, la nuova Gerusalemme descritta dall’Apocalisse, mi fu rivolta una obiezione: “Che cosa ha di bello la Gerusalemme terrestre? Io vedo solo tensioni e contraddizioni. Questa è una terra troppo promessa a tutti e diventa oggetto di contese e di guerre senza fine”.

Contese, guerre, sangue … Il sangue, nella mentalità biblica, è fonte di vita. Ciò che gronda sangue è foriero di una vita nuova, donata in abbondanza a chi accetta la follia delle antiche e nuove Beatitudini. Quelle antiche sono state proclamate da Cristo nel Discorso della Montagna (Matteo 5, 1-12; Luca 6, 20-23). Quelle nuove si trovano nell’Apocalisse (1,3; 14,13; 16,15; 19,9; 20,6; 22,7; 22,13-14), libro bellissimo e sconcertante, difficile da interpretare, ma ricco di tante immagini, molte delle quali anche un lettore sprovveduto può apprezzare.

Da un po’ di tempo cerco di scrivere libri in commento alla Bibbia, non senza aver prima letto quello che altri hanno scritto. Ma, poiché Dio vuole rivelarsi a tutti con la Parola, al di là di ogni esegesi pur sempre necessaria, un lettore può ricavare moltissime intuizioni anche dalla lettura personale, dopo aver chiesto allo Spirito Santo di illuminarlo.

Ciò premesso, rispondo alle obiezioni poste sull’Apocalisse, collocandola nel tempo in cui fu scritta e mettendo in evidenza solo un’idea: beata è la sofferenza vista come mistero che si illumina nel mistero della vita, morte e resurrezione di Gesù.

Nell’isola di Patmos l’anziano Apostolo, imprigionato, lotta per tenere viva la speranza dei cristiani perseguitati a causa della loro fede. Guarda a Cristo, Agnello immolato e pure ritto sui suoi piedi e lo descrive trionfante su nei Cieli. Parla delle sue nozze con l’Umanità. Le nozze dell’Agnello sono circonfuse di una sofferenza generativa, come ogni matrimonio (vita nuova che sorge da un distacco) e come le doglie del parto.

I cristiani perseguitati e l’umanità sommersa in un indescrivibile dolore partecipano – in maniera incompresa, nascosta, ma redentiva – al dramma psicologico, morale e fisico subito da Gesù. Nel momento della sofferenza la ragione e il cuore si annebbiano: i giusti gridano il loro dolore al cielo. Non capiscono il perché delle persecuzioni da parte della bestia (l’imperatore romano). Guardano alla grande prostituta (Babilonia) e sognano il tempo in cui sarà sprofondata come un sasso nel mare, simbolo del male. Invocano il Signore affinché non faccia morire in loro la speranza di capire il senso della sofferenza, per lo meno nel momento del giudizio universale.

Soffrono, gridano, invocano… ma contemporaneamente sono realisti: non s’illudono che il progresso possa creare l’Eden sulla terra. Non pensano a quel benessere globale che qualcuno chiama pace e che i politici non riescono a far regnare sulla terra. Hanno quel realismo che, portato all’estremo – e non senza la magistrale arte della provocazione – aveva posto sulle labbra di Cristo la tremenda sfida: «Ma quando il Figlio dell’Uomo tornerà sulla terra, troverà ancora la fede?».

Come reagiranno i perseguitati di fronte alla barbarie di chi vuole estirpare la fede? Forse qualcuno si perderà, ma molti, con la loro testimonianza e il loro martirio, condurranno molte persone a Cristo, preso come modello di vita e scopo della loro esistenza e lo seguiranno con lo stesso eroismo con il quale Gesù ha abbracciato la croce.

L’Apocalisse si presenta come un libro scritto con l’intento di “togliere il velo” (questo è il senso della parola “Apocalisse”) e mostrare la realtà nuda e cruda: la lotta tra le tenebre e la luce. L’Apostolo solleva il velo della storia per mostrare che, al di là dell’apparente prevalere del male sul bene, domina incontrastata una Presenza: l’Agnello immolato e risorto, Cristo e la sua sposa, la Chiesa. Presenza che diventa certezza di resurrezione e di recupero di tutta l’umanità, coinvolta in una catarsi (purificazione) che porterà al recupero di tutti e di tutto, non in virtù dei nostri meriti, ma per sola misericordia del Redentore.

L’Apocalisse termina con un pressante invito: Lo Spirito e la Sposa gridano: «Vieni!». Tutti sono chiamati a trarre un beneficio dalle sofferenze di Cristo e a trovare in lui il senso dell’umano soffrire: dolore mai assurdo, anzi, sorgente di redenzione. In questo contesto mi sia permesso di parafrasare così le beatitudini dell’Apocalisse:

Beati quelli che mangiano questo libro (Cfr. Ez 3,2), interiorizzano le profezie e le annunciano, perché prossimo è il tempo della fine.
Beati quelli che decidono di morire in Cristo, perché a essi non toccherà la sorte degli idolatri, condannati a essere sempre inquieti, giorno e notte.
Beati quelli che vigilano nell’attesa del ritorno del Signore, imprevedibile come un ladro di notte, perché non saranno sorpresi nudi, né esposti a pubblico ludibrio.
Beati quelli che, invitati alle nozze dell’Agnello, sono coerenti nell’immolarsi come Gesù in croce, perché saranno guariti dalle sue ferite.
Beati e santi quelli che prendono parte alla prima resurrezione, perché, vivi per sempre nel regno dei cieli, la seconda morte – la morte eterna – non avrà potere su di loro.
Beati coloro che conservano il messaggio profetico dell’Apocalisse, perché avranno pace, quand’anche il Signore tardasse a venire.
Beati coloro che hanno reso candide le loro vesti lavandole nel sangue dell’Agnello, perché saliranno la santa montagna, la Chiesa, la Gerusalemme celeste, il paradiso, eternamente felici nei cieli nuovi e nella terra nuova.

Valentino