«Mio figlio è un angelo. Anzi… è Dio»

«Vorrei avere una famiglia, una moglie da amare, dei bambini, ma tutto questo mi fa anche tanta paura. Forse perché ho sempre provato un po’ di vergogna nei confronti della mia famiglia che pareva attaccata con il nastro, continue discussioni, disgusto della politica e indifferenza nei confronti della religione. I bambini… ma se dovessi mettere al mondo degli infelici? Che futuro si prospetta per loro? Che cosa offrirò loro? E se mi dovessero deludere anche loro?».

Dentro «una notte più buia del buio e un giorno più grigio di quello passato», procedono faticosamente e lentamente un papà e un bambino che trascinano un carrello con alcune provviste alimentari. Grigio, arido e inospitale deserto – dopo un cataclisma – è diventata la terra, luogo in cui i pochi sopravvissuti sperimentano la triste realtà descritta da Dante allorché, in modo straziante, dipinse la sorte del conte Ugolino: «Poi più che il dolor poté il digiuno».
Resistendo alle intemperie e agli assalti dei disperati superstiti, padre e figlio camminano, stremati, verso il sud, verso il mare, sperando di trovare un luogo in cui sopravvivere. Cammino di dolore in cui il figlio impara a distinguere il bene dal male, a cercare dentro di sé il “fuoco”, un motivo per cui continuare a vivere e a non perdere la volontà di sognare. In un contesto altamente drammatico e tragico, al di là di proposte moralmente inaccettabili, s’innalza uno stupendo inno alla vita. Il padre vede nella sua creatura Dio stesso, al punto da affermare: «Mio figlio… se non è lui il Verbo di Dio, Dio non ha mai parlato». «Mio figlio è un angelo. Per me è come Dio».
Questa è la parte più bella del film “The road”, adattamento cinematografico del romanzo “La strada”, di Cormac McCarthy.
Nonostante i grandi limiti di questo film, penso che possa essere di utilità alla presente generazione: fa riflettere sul fatto che, al di là di tutti i problemi che la vita può presentare a un essere umano, su tutto trionfa la meraviglia d’essere padre. Alla base del sentimento che lega padre e figlio, nel film, c’è la capacità di condividere, il coraggio di affrontare le avversità attivando le proprie umane risorse, la sublimità del desiderio dei due protagonisti di stare sempre assieme: addirittura, di morire assieme, per non essere mai divisi neppure dalla morte.
Non posso dimostrare a un giovane che non deve temere la paternità. Posso solo intonare un inno alla vita, aiutato sia dal fascino di sentirmi “padre” – oltre all’esperienza d’essere figlio –, sia da quella fede che mi mostra la sublimità del vivere e del dare vita alla vita.
Prega nel grembo materno la creatura dal primo istante del suo concepimento. Ha in sé un’invocazione – anche se inespressa – al bisogno di venire alla luce. Anzi, tutto il suo essere è un’invocazione, una supplica, una preghiera al Dio della vita perché si compia lo stupendo progetto d’Amore. Invocazione ben presente a Dio, che mette sulla bocca del Salmista: «Signore, tu mi scruti e mi conosci (…) mi hai intessuto nel seno di mia madre (…) Non ti erano nascoste le mie ossa quando venivo formato nel segreto, intessuto nelle profondità della terra. Ancora informe mi hanno visto i tuoi occhi e tutto era scritto nel tuo libro, i miei giorni erano fissati, quando ancora non ne esisteva uno» (Salmo 138).
Come potrebbero papà e mamma non inginocchiarsi e pregare appena scoprono d’aver dato vita alla vita? Li immagino uniti nella preghiera, mano nella mano, a occhi chiusi, mentre elevano la loro mente a Dio, sperimentano Dio e percepiscono se stessi creatori insieme a lui.
Il loro essere è lode al Creatore per aver permesso che dal loro amore sia germogliata una nuova vita, che rispecchia ciò che essi profondamente sono, ciò che da sempre avrebbero voluto essere e… ancora di più di tutto questo. Il meglio di loro si fa carne e supera ogni umana aspettativa. E nel pregare, papà e mamma colgono la loro vocazione a essere vita. Estrinsecano il meglio di se stessi. Percepiscono che il loro essere si trasforma sempre più, si perfeziona, si divinizza.
E in questa sublime comunione, papà e mamma comunicano con Dio stesso, così come il Signore della vita comunica con loro, commosso che due suoi figli abbiano imprestato a lui il loro corpo per permettergli di creare una nuova anima, una nuova esistenza, un nuovo prodigio.
Perché temere la paternità? Perché non sospirarla come la realtà più bella che possa accadere nella vita? Perché non affrontarla con quella fede e quell’amore che scacciano ogni paura, come afferma San Giovanni nella sua prima lettera? Perché non fidarsi della Provvidenza?
La Provvidenza: ogni essere è attuazione del disegno di Dio. Lo loda semplicemente per il fatto di vivere. E il suo modo di pregare non consiste tanto nel muovere le labbra sussurrando preghiere e nel coltivare un rapporto mentale con il Creatore, bensì nell’approfondire la coscienza d’essere stato voluto, chiamato per nome, amato prima ancora d’essere concepito nel seno materno perché… concepito nel piano provvidenziale del Dio-amore.
La preghiera, come contemplazione della propria perfezione in Dio, porta a concepire la vita come partecipazione all’Essere, al Vero, al Bello, al Buono, all’Uno. Fa percepire il cosmo trasparente e bello perché ordinato in Dio, perdendosi nel quale l’essere umano si ritrova divinizzato. E grazie alla forza dall’Alto si pone al servizio della vita, potenziando al massimo le sue energie: vede con gli occhi di Dio. Ama con il cuore di Dio. Opera con le mani stesse di Dio. Presta a Dio il suo corpo, perché Egli torni a essere Padre.
Canta la vita, che è stupenda avventura d’amore quando è illuminata dalla fede in quel Dio che ci dona la vita “in abbondanza”, per amore.

Valentino