Non tanti ma santi

«I miei figli sono credenti: penso di aver dato loro il meglio del cristianesimo, anche se, forse, ho sbagliato nell’insistere troppo perché santificassero regolarmente le feste liturgiche e ogni domenica con la partecipazione alla santa messa. Ora mi pongo la domanda come mai non mi ascoltino più i miei figli, come tanti altri giovani, quando li prego di andare in chiesa il giorno del Signore. Gli artisti, le star del cinema e i cantanti non hanno bisogno di pubblicità per attrarre le folle… Le nostre chiese si svuotano. Perché?».

Gli scritti di Santa Teresa d’Avila e di Santa Teresa del Bambino Gesù ci danno indirettamente una risposta a questa domanda e ci aiutano a fare un esame di coscienza. Ci obbligano a chiedere a noi stessi in che cosa abbia sbagliato la presente generazione; ci invitano a metterci in gioco, a capire in quale direzione orientarci per educare i nostri figli a quei valori cristiani che permettano di armonizzare cultura, fede e scienza.
L’eredità spirituale di queste due sante può essere riassunta nei punti che seguono.
Se i cristiani capissero il valore dell’Eucaristia, dovremmo chiamare le forze dell’ordine per regolare l’afflusso dei credenti in chiesa, che sarebbe “presa d’assalto” ogni domenica per lo struggente desiderio di incontrarsi con la Parola del Signore e con il Pane eucaristico.
Chi ha capito il valore della messa, sente il bisogno di ricevere Cristo non solo alla domenica, ma ogni giorno.
Più ci accostiamo alla luce, più scopriamo le nostre ombre, quindi sentiamo urgente il bisogno di convertire noi stessi, di diventare santi, di accorgerci dell’immagine presentata dal profeta Daniele (2,26): abbiamo una testa d’oro, un petto d’argento, le gambe di ferro, ma i piedi d’argilla e quindi di fronte alla prova – quando cade il macigno dal monte – se non stiamo in guardia, tutto crolla. Ecco di nuovo l’urgenza di salvare noi stessi, prima di essere preoccupati dell’educazione morale degli altri.
Se noi, praticanti, ci sforziamo di identificarci sempre più con Cristo e di vivere come già morti e risorti con Lui, emaniamo dal nostro corpo luce, grazia e santità che affascinano chi non crede e spronano a rendere conto di ciò che ci anima.
Indipendentemente dall’eloquenza dei preti, se questi sono santi attirano a Cristo moltitudini, perché una bella omelia difficilmente converte una persona, mentre la santità è contagiosa e crea il miracolo.
Se ci rendiamo conto che abbiamo l’obbligo di testimoniare il Vangelo in virtù del Battesimo, ci sentiamo “Chiesa” e ci rimbocchiamo le maniche. Non ci aspettiamo tutto dai preti, non li giudichiamo in base alla loro efficienza, tanto meno dalle costruzioni che realizzano in parrocchia. E di fronte al venire meno di presbiteri nelle nostre diocesi, non ci lamentiamo per l’esiguità del loro numero, ma preghiamo perché Dio ci conceda non tanti preti, ma tanti santi.
E tanti sono i santi in tante parti della terra, soprattutto nelle giovani Chiese. Anche in Occidente abbiamo ancora dei santi, ma ci troviamo ad avere anche troppi cristiani che assomigliano molto ai farisei. Questi non erano malvagi: aspiravano alla perfezione, mettevano in pratica tutti i dettami della legge, pregavano e praticavano il digiuno. Ma a loro mancava l’umiltà, non riconoscevano il proprio peccato, volevano che gli altri fossero santi… come loro! La loro presunzione di non essere peccatori come gli altri li rendeva odiosi, separati (questo è il significato del nome “fariseo”), non attraenti.
Ecco il nostro peccato odierno: non siamo affascinanti. I nostri giovani non hanno bisogno di essere spronati ad andare al concerto di un cantante che amano. Si sottopongono a fatiche estenuanti e interminabili attese, pur di prendere i primi posti… Se noi cristiani siamo spenti, se abbiamo paura a porre segni che dimostrino la nostra fede, se non viviamo nella gioia – nonostante le inevitabili croci che a tutti la vita riserva –, come possiamo sperare di poter educare alla affascinante follia evangelica le nuove generazioni?
E per affascinare occorre quella santità che si basa sulla morte dell’”io egoico”: morte dell’uomo vecchio, morte di quell’ambizione che fa attribuire a noi stessi quei doni che Dio ci ha dato. Occorre morire al peccato e vivere implorando ogni giorno la grazia che abbondantemente scende dal Crocifisso. Occorre trasformare il limite in grandezza: appunto perché mi riconosco peccatore faccio penitenza, prego sempre di più, accetto l’umiliazione: non fine a se stessa, ma come realistica presa di coscienza che «dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fiori».

Valentino