La croce come prezzo dell’Amore

«Padre, faccio fatica a capire che cosa sia peccato e, conseguentemente, non mi accosto alla confessione. Cerco di vivere bene l’atto penitenziale all’inizio della messa e poi faccio sempre la comunione. L’eucaristia senza ricevere Cristo è un controsenso. Quando poi mi accorgo che ho sbagliato nel mio rapporto con il prossimo, non esito a domandare a lui il perdono, oltre che al Signore. Perché la Chiesa insiste tanto sul sacramento della riconciliazione?”.

Forse la Chiesa non insiste a sufficienza sulla bellezza di accostarsi a questo sacramento. Forse, i ministri della Riconciliazione non sono a sufficienza disponibili a celebrare il rito della penitenza individuale e comunitaria. Probabilmente, non pochi di essi sono delusi dal modo sbrigativo e superficiale con il quale i fedeli spesso si rivolgono a loro – quasi per strappare un’assoluzione – mentre stanno recandosi all’altare per celebrare l’Eucaristia, o affollano i confessionali la vigilia delle grandi feste. Forse i cristiani hanno perso il senso del peccato: più stanno lontani dalla Luce, meno vedono le loro ombre.
Poiché più volte ho trattato questo argomento, ora mi limito a riandare ancora una volta al modo di vivere il cristianesimo da parte di molti credenti africani che, a differenza degli Occidentali, si lamentano di non avere la possibilità di accostare un prete che dia loro l’assoluzione. Essi si sentono tanto più peccatori, quanto più meditano la passione di Cristo e si confrontano con il Crocifisso.

L’Africano sa che è proprio la croce il paragone della sua indegnità e del suo peccato. Dalla croce non si sente condannato, ma redento. Sapendosi, suo malgrado, solidale con questo mondo intriso di peccato, egli vive la sua solidarietà con Cristo nel pagare il prezzo del male del mondo. E in qualche modo osa sentirsi anche lui “un Cristo” svenato dal dolore e dal peccato; anche lui strumento di redenzione, capace di guardare alla propria croce come prezzo dell’amore.
Ne è conferma il fatto che la stessa serena e fiduciosa libertà emerge proprio nelle confessioni degli Africani, spesso bellissime. Non hanno bisogno di sollecitazioni e di domande: «Cosa ricordi? C’è nulla che ti rimorde la coscienza?». Non fanno in tempo a inginocchiarsi che hanno già iniziato a snocciolare il loro rosario di colpe, non di rado con le lacrime agli occhi.
Ricordo un giovane che si accusò di aver commesso un centinaio di adulteri. Di fronte alla mia perplessità, mentre mi chiedevo se non stesse esagerando, aggiunse subito: «Mi è difficile contarli, ma preferisco abbondare nel numero, piuttosto che tralasciarne qualcuno. E poi, non sta scritto che è sufficiente desiderare una donna per commettere adulterio? Altro che cento, allora!».
A volte si confessano in modo davvero stupendo, come quell’anziana signora che trovai in una capanna-chiesetta sperduta sulle alture di Mangochi, in Malawi.
Mi ci avevano portato con una moto possente che sfrecciava pericolosamente sui ripidi sentieri, salutato dagli schiamazzi delle scimmie terrorizzate dall’improvviso rombo del motore.
La trovai inginocchiata davanti a un crocifisso deposto sul pavimento. Di tanto in tanto si prostrava, appoggiando la fronte sulla croce e poi baciandola con trasporto, quindi alzava lo sguardo al cielo: uno sguardo puro, che rendeva luminoso il suo volto dai lineamenti di bambina nonostante la vecchiaia incipiente.
Si accorse della mia presenza e, riconoscendomi come prete, subito mi sollecitò a ricevere la sua confessione.
Parlava un inglese stentato e un po’ buffo, che la rendeva ancora più simpatica. L’aveva imparato senza mai andare a scuola, cogliendolo dalle labbra dei “padroni” presso i quali aveva prestato servizio per lunghi anni. Aveva avuto dodici figli, dei quali soltanto cinque erano sopravvissuti.
La sua confessione fu tutta una lode a Dio per il privilegio di poterlo pregare e di avere assaporato la gioia di ricevere il sacramento della Riconciliazione.
La interruppi: «Ma come mai sei venuta tanto in anticipo? Sei qui tutta sola».
«Sono venuta ieri sera», rispose con un lampo arguto negli occhi. «Ogni sabato pomeriggio lascio il mio villaggio lontano per venire qui. Non potrei mai farcela, se partissi la domenica: sono sette o otto ore di cammino».
Insistetti: «E dove passi la notte?».
Sorrise: «Qui. Dormo su questa stuoia. È così bello addormentarsi alla presenza di Dio! E poi, così, sono già qui in chiesa all’alba, per prepararmi alla preghiera comunitaria o alla santa Messa, quando abbiamo la fortuna di avere un prete».
Il missionario infatti vi andava solo una volta al mese; le altre domeniche c’era il catechista che conduceva il servizio della Parola, dirigeva i molti canti a più voci e distribuiva l’Eucaristia.
Capii che quella donna giudicava un privilegio camminare tanto verso la casa del Signore, dedicando il giorno intero alla lode a Dio, perché altro non faceva durante le altre sette od otto ore di cammino per ritornare alla sua capanna, dove sarebbe giunta a sera inoltrata.
Così per tutta la vita.
Intanto la confessione si snodava intensa e gioiosa, tutta infarcita di esclamazioni di gratitudine al Signore per la sua bontà.
Mi resi conto di essere di fronte a una santa e mi sfuggì: «Lascia che mi inginocchi io davanti a te, mamma, per una tua benedizione. Non posso stare qui seduto mentre tu sei in ginocchio per terra: non ne sono degno».
Rifiutò con sdegno: «Ma cosa dici, Padre! Siediti, ti prego, e ascolta i miei peccati!».
«Ma tu non hai peccati», ribadii. Ma ella continuò imperterrita la sua confessione. La invitai allora a pregare per me e lei mi chiese:
«Hai ancora la mamma?».
«Sì; brava come sei tu».
Di nuovo si schermì e allora, prima di assolverla, le chiesi di invocare con me il perdono di Dio su entrambi, ma lei tutta seria mi interruppe: «E la penitenza?».
«Per penitenza prega per me. E ora dammi un bacio, come fa sempre mia madre».
«Ma questa non è una penitenza, è un privilegio», sussurrò mentre accostava la sua fronte alla mia: un contatto di una dolcezza indescrivibile.
Poi, alzandosi a fatica, mise la sua mano sul mio capo, augurandomi: «Il Signore ti benedica sempre, Padre mio».
E si rimise sulla stuoia, in preghiera. Valentino Salvoldi

Valentino