È ancora tanta la fame di Cristo

«Quand’ero un ragazzino, mi batteva forte il cuore quando mi accostavo a ricevere la particola consacrata. Poi, un po’ alla volta mi sono abituato alla messa: vi andavo quando ero protagonista di qualche evento. L’abbandono della Chiesa da parte dei miei amici mi ha ulteriormente raffreddato. Ora sento ancora, ogni tanto, la nostalgia della messa, ma ci vado solo nelle feste grandi. Vorrei parlarne con gli amici, ma il gruppo impedisce di affrontare discorsi impegnativi. Che cosa può averci portato a questa situazione? Perché Cristo non affascina più tanti cristiani che non sentono il bisogno dell’eucaristia?».

Il vantaggio di girare il mondo mi dà la possibilità di godere di tante esperienze positive riguardo alla fame e sete di Dio in tantissime persone. Ho solo l’imbarazzo della scelta per mettere in evidenza che è ancora tanta la fame di Cristo.
A Mosca, alla metà degli anni Settanta, in case private passavo le notti discutendo sulla fede e all’alba i credenti, prevalentemente ortodossi, non mi lasciavano andare senza una commovente celebrazione eucaristica – era come se fossimo nelle catacombe – e i non cristiani mi chiedevano di dare loro anche solo il pane benedetto, perché non volevano essere esclusi da un rito tanto bello.
A Lahore, in Pakistan (Paese dove i cattolici sono solo lo 0,5%), la settimana santa del 1985, la preparazione alla Pasqua vedeva tutti i giorni la chiesa gremita di giovani, che mi chiedevano solo di non aver premura di terminare quei riti che li facevano sognare di poter morire con Cristo e risorgere con lui. In Canada, agli inizi del 2000, dopo una conferenza in una scuola di Toronto, avendo detto agli studenti che mi sarebbe piaciuto celebrare con loro l’Eucaristia e ungerli con il sacro crisma – affinché portassero il profumo di Cristo nel mondo – mi sono trovato con oltre trecento giovani a celebrare una delle più belle messe della mia vita.
Quanto all’Africa, folle oceaniche di giovani animano quelle messe durante le quali si sperimenta il fascino del mistero dell’Incarnazione: un Dio che si fa corpo, si fa carne e diventa uno di noi; un Dio che viene a cercarci, quasi a elemosinare il nostro amore. Un Dio che cerca l’uomo e gli chiede di mangiare il suo corpo e bere il suo sangue.
Questa verità incanta e commuove il cristiano africano che, confrontandosi con le altre religioni – nelle quali è preminente lo sforzo umano nel cercare di raggiungere Dio – percepisce il privilegio di appartenere alla Chiesa cattolica. Questa insegna che Dio non solo si rivela, ma addirittura va alla ricerca dell’uomo per attirarlo a sé, liberarlo dal male e affrancarlo dalla morte con la propria morte, e infine ricondurlo all’unità del suo amore. Unità tra gli esseri umani, resa possibile dall’unità con Cristo che ci attira a sé. Anzi, ci trasforma in Lui, in un progressivo processo di divinizzazione.
A chi mi chiede come mai si arrivi, in Europa, a non sentire il bisogno di nutrirsi di Cristo, potrei rispondere che la vita secondo lo Spirito, la religione, la fame e sete del Signore sono realtà da non prendere per scontate. Se si mette Dio al secondo posto nella nostra vita, Egli non ci fa violenza. Prova a parlarci, ma se il nostro cuore è occupato in cose vane e se la nostra vita è colma di attività puramente umane, non trova il terreno necessario a far germogliare quei semi che ha posto in noi, nella giovane età.
Quando mi accorgo che sto sbagliando nel mio rapporto con il Signore, Egli mi regala una crisi di fede: campanello d’allarme, invito a fermarmi per non diventare “adultero” in senso biblico, cioè mettere il Signore al secondo posto. Mi spiego con un esempio che mi permette, mentre mi confesso ad alta voce, di sottolineare ancora una volta quanto sia apprezzata l’Eucaristia in Africa.

Lokinvar (Zambia). Ho imparato a mie spese che, continuando a lavorare ininterrottamente, un po’ alla volta mi svuoto, divento triste e ho ben poco da comunicare agli altri. Allora, periodicamente, sospendo ogni attività di insegnamento e mi ritiro per una settimana in un luogo deserto. Nel silenzio, nella meditazione, nella preghiera ritrovo l’armonia, rinnovo le mie forze, mi preparo all’incontro con gli altri. Qui in Zambia, non avendo la possibilità di raggiungere il deserto, mi reco in una località vicino a un lago. È venerdì: è il mio quinto giorno di silenzio e sento il bisogno di comunicare con qualcuno. Un giovane avanza con una barca verso di me. Lo guardo ed egli si ferma: pure lui sembra desiderare un incontro. Mi chiede il motivo della mia solitudine e gli rispondo che sono prete e sto cercando Dio. «Un prete?», esclama. «Dov’è la tua parrocchia?». «Non ho parrocchia. Sono un prete insegnante». Desidera sapere dove e quando celebrerò la messa e io gli dico che non ho ancora scelto un momento e un luogo particolari. «E perché non vieni tra la mia gente? Da anni non abbiamo un prete. Mio nonno è catechista e tutte le domeniche legge la parola di Dio e aiuta, come può, i fedeli a pregare». Insiste perché vada con lui. Accetto l’invito. Trascorriamo quasi tutta la giornata sulla barca e io lo aiuto a remare. Prima di giungere al villaggio, prende il tamburo parlante e comunica un messaggio, che evidentemente viene accolto con gioia: sul piccolo molo troviamo infatti tante persone che ci attendono, danzando. Ora il giovane pronuncia alcune parole nella sua lingua e la gente è subito in fermento. Qualcuno porta dell’acqua e mi lava i piedi, altri recano con sé unguenti profumati. Mi offrono latte di capra. L’atmosfera è densa di attesa. Arriva il catechista e piange di gioia. Mi confida: «Padre, non ricordo più da quanti anni non vedevo un sacerdote. Facciamo festa! Lei è l’uomo della festa». Mi descrive la situazione religiosa. C’è da stupirsi al pensiero di come abbia potuto, da solo, mantenere viva una piccola Chiesa; come abbia potuto conservare la fede in Dio; come sia riuscito, nel nome di Cristo, a rimanere fedele alla Chiesa cattolica: una Chiesa tanto lontana, che pare essersi dimenticata di questo angolo della terra. La gente pensa con gioia alla messa che verrà celebrata il giorno dopo e si accosta al sacramento della Riconciliazione. Nonostante tutti gli anni passati senza la presenza di un sacerdote, le confessioni sono belle e significative: non un semplice elenco di colpe, ma innanzitutto un inno di ringraziamento e di lode a Dio perché ha mandato me, che ora posso concedere il perdono nel suo nome e spezzare il pane eucaristico. La notte trascorre tra le danze. La gente porta tutto ciò che ha, per fare festa. Qualcuno, forse, s’inebria oltre misura, ma tutto serve a far cadere le barriere… Spunta il nuovo giorno. Il mattino presto, il catechista suona uno strumento che diffonde note armoniose, simili a rintocchi di antiche campane. Tutto il villaggio è in fermento. Le strade vengono pulite e la gente porta fiori freschi per adornarle: tra poco si snoderà la processione e io passerò per quelle vie con il corpo di Cristo. Avevo con me una piccolissima quantità di vino, ma neppure un’ostia, così, durante la notte, abbiamo preparato con un po’ di farina una specie di pane azzimo che spezzeremo insieme. Appena pronuncio le parole della consacrazione, mi appare uno spettacolo stupendo. La gente si alza e comincia a danzare attorno all’altare, cantando tantissime volte: «Questo è il mio corpo per voi, per tutti». La donna più anziana, facendo vibrare velocemente la lingua tra le labbra, emette l’ululato tipico dei giorni di festa, come quando arriva il re. Le mie mani sorreggono l’ostia e la gente continua a danzare, a danzare… Dopo la messa c’è il pasto comunitario. Mi sento quasi in colpa al pensiero che tra poco me ne andrò. Cosa posso fare per queste persone, sapendo che non tornerò più nella loro terra? Prometto che parlerò ai vescovi della loro situazione, affinché mandino tra di loro, in modo permanente, l‘”uomo della festa” oppure consentano di consacrare prete quell’anziano catechista così che possa celebrare l’Eucaristia, lui che per anni ha alimentato il sogno della comunità di vivere attendendo la festa per eccellenza, attorno a un altare.

Valentino