«Cristo sì, la Chiesa no!»

«“Cristo sì. La Chiesa no!”. Penso che non sia soltanto uno slogan, ma una realtà per la maggior parte dei cristiani. Ma se una persona prega poco, se non riceve l’eucarestia, può continuare a dirsi cristiana? Reputo che si rifiuti la Chiesa, e in particolare la messa, a causa soprattutto dei preti che non hanno saputo rendere attraente la liturgia domenicale. L’hanno resa un obbligo e l’hanno fatta diventare odiosa, non adattando il rito e il linguaggio alle necessità dei nostri tempi».

«Cristo sì!». È bello soffermarsi sulla prima parte dello slogan. Il mondo ha bisogno di Cristo che, una volta incontrato, “lascia il segno”. Purtroppo quattro miliardi e mezzo di persone ancora non lo conoscono. Ma chi ne ha subito anche solo per un momento il fascino, non lo dimentica. Per lo meno, ne sente la nostalgia. Nelle giovani Chiese, l’Eucaristia domenicale è affollata di credenti che pregano con gioia per due o tre ore. La messa è festa, banchetto, incontro, canto e danza. Cristo è la Chiesa.
Questo era vero anche in Europa, fino verso gli anni sessanta. Poi la società è cambiata. I maestri del sospetto (Nietzsche, Freud, Marx, Feuerbach …) hanno fatto scuola a una generazione che andava sempre più arricchendosi e imborghesendosi. I venti di libertà hanno portato a consumare, a cercare il piacere momentaneo, a vivere da eterni adolescenti con il complesso di Peter Pan, la paura di crescere e di invecchiare. Si sono presi a modello i belli, i giovani, i ricchi… Si è accentuato il fascino della terra e dell’effimero e ha cominciato a dare sempre più fastidio la presenza di chi, per vocazione, aveva votato la propria vita quale intrinseco rimando al trascendente. “L’uomo di Dio”, il prete… Senz’altro anche lui, vittima del suo tempo, ha fatto degli errori. Non ha studiato a sufficienza. Non si è aggiornato. Non ha, forse, pregato quanto sarebbe stato utile per fare di Dio, e di lui solo, l’unico fondamento dell’esistenza. Forse anche ha sbagliato, per un eccessivo senso del pudore e per rispetto della privacy, a non avere il coraggio di accostarsi ai parrocchiani con lo spirito del profeta: «Così dice il Signore…». Si è illuso che fosse sufficiente ritenere Dio come un sottofondo musicale, leggero leggero, per non essere invadente… Sta di fatto che all’uomo moderno sono mancate proposte belle, esplicite, stimolanti. E così le chiese si sono svuotate: certo, non solo a causa dei preti. Questi poi – per un circolo vizioso – vedendosi non apprezzati, anziché cercare vie nuove si sono arroccati in un’arida verità, che li ha ulteriormente allontanati dalla gente e… li ha fatti ammalare al cuore. I preti muoiono di “crepacuore”.
I preti, anziché sentirsi vittime, avrebbero dovuto semplicemente ritenersi “guaritori feriti”, bisognosi di perdono, dell’affetto e dell’aiuto della comunità. Questa avrebbe dovuto rendersi conto che i preti sono esseri umani che hanno deciso di non fare l’amore per essere amore. Hanno scelto il celibato per essere tutti di Dio e della comunità. Ma, appunto perché fatti della medesima pasta di tutti gli esseri mani, hanno bisogno di affetto, stima, compassione, una scodella di minestra e il calore di una famiglia. In Africa il prete è l’uomo della festa. In Europa sta diventando… l’uomo dei funerali.
La vita non mi ha mai portato a essere parroco, anche se per ventidue estati – tornando dall’Africa – sono sempre andato nella stessa parrocchia di montagna come “cappellano estivo”, per avere anche solo un minimo di esperienza di vita pastorale. Ho predicato più di centocinquanta esercizi spirituali a tantissimi giovani. Nel passato tantissime persone mi consultavano e chiedevano di confessarsi. Ora, sia perché sono in giro per il mondo, sia perché i laici non vanno più a consultare gli uomini di Dio, mi trovo in questa strana situazione: sono interpellato prevalentemente quando gli amici di un tempo hanno problemi matrimoniali o sono colpiti da un lutto familiare. Naturalmente, sono contento di poter esercitare le opere di misericordia spirituali, ma al tempo stesso penso: se anche gli altri preti, oltre ai funerali, sono interpellati solo quando le cose vanno male, quali soddisfazioni possono avere nella vita? Se, salendo l’altare alla domenica, in chiesa non vedono i giovani, come possono sperimentare il senso della paternità spirituale? E se continua il fenomeno delle frustrazioni, come potranno essere entusiasti nello spiegare la parola di Dio a persone che sono in chiesa con un grande, comune desiderio: che la messa non superi i quaranta minuti?
«Cristo sì, la Chiesa no!». E i preti? …Sto insegnando, sistematicamente, al clero delle giovani Chiese (Africa e Asia) che essere preti «non vuol dire mettere una divisa fuori, ma un tormento dentro» (F. Boy). Il tormento che Cristo non sia conosciuto, Dio Padre non sia amato e lo Spirito Santo sia ignorato da molti battezzati. Tormento che dovrebbe essere lenito dalla preghiera e dall’aiuto di una comunità che, nei confronti dei suoi pastori, fa ciò che Ur e Aronne facevano nei confronti di Mosè: gli sorreggevano le braccia quand’era stanco di tenerle alzate al cielo, coscienti che l’esercito israeliano sconfiggeva i nemici solo se il loro leader pregava.
Se i nostri preti saranno accettati come esseri umani, perdonati e aiutati a pregare, saranno santi e aiuteranno la comunità a santificarsi grazie ai doni che essi le danno: la remissione dei peccati e l’Eucaristia. Da questi doni nascerà la pace.

Valentino