Alla ricerca di energie vitali

«Caro Don, ho letto il tuo libro: “Non si muore, si nasce due volte”. Mi è piaciuta molto l’affermazione: “Una tomba è troppo piccola per contenere il mio amore. Risorgerò”. L’energia vitale dell’amore fa esplodere la tomba! È proprio un supplemento di energie ciò che vado cercando nella mia vita. Una strana energia, sotto forma di dolore o di sofferenza interiore mi sembra di averla sempre avuta dalla nascita. Oppure si è sviluppata in me fin da piccolo senza che me ne accorgessi. Sta di fatto che la ritrovo nei miei ricordi più remoti. Molte volte (dalle prove più difficili, ma perfino nei compiti meno nobili, tipo impegnarsi in una gara di corsa) ho cercato energia, trovandola dal dolore che si trasformava in senso del dovere e in determinazione nel continuare senza cedere a nemmeno io so cosa. Non ti nascondo però che mi sono trovato in difficoltà nella convivenza/condivisione di spazi, tempi, discorsi con gli altri: dove sono i voli pindarici di cui tu parli ad indicare i tuoi incontri con gli amici? Che cosa ci trasmettiamo nelle lunghe conversazioni in cui si parla di tutto per non parlare di niente? Perché questa difficoltà a confrontarci su temi vitali quali il nascere e il morire?».

“Energia”: tra i tanti spunti di questa domanda mi fermo soprattutto su questa parola, e cerco di illustrarla riferendomi alla cultura Bantu, diffusa in molti paesi a sud del Sahara.
In queste terre tutta la realtà è intrisa di energia vitale. Sembra che scopo dell’esistenza umana sia dare vita alla vita, generando il maggior numero possibile di figli. La vita va danzata. La morte è solamente un incidente di percorso che non potrà mai avere l’ultima parola. È il nemico sempre in agguato che deve essere costantemente esorcizzato, ma che può infliggere sconfitte puramente apparenti e transitorie.
Se nella vita è nascosta la morte, la persona saggia non si ferma alle apparenze: come momenti esaltanti di vita possono celare la morte in agguato, così il trionfo apparente della morte non è che un sipario che ci nasconde il definitivo riaffermarsi della vita, unico traguardo del nostro cammino esistenziale, perché la morte non è la fine, ma solo l’inizio di una vita nuova.
La morte è l’evento più importante nella vita del clan. Si può dire che una comunità viene giudicata dalla sua capacità di vivere la morte, assorbendola e superandola fino a renderla occasione di crescita in coesione e vitalità.
Di fronte a un lutto tutta la comunità si organizza per elaborarlo nel miglior modo possibile, così che si sprigioni un’energia vitale che serva ai familiari e a tutto il clan a trasformare la disgrazia in benedizione. È tutto un complesso rituale di riconciliazione sociale e cosmica, per estirpare il peccato che ha causato la tragedia, affinché la vita – unica realtà naturale prevista per il progetto umano – ritorni a regnare.
È questa intuizione sorprendente che dà all’Africano il coraggio di smitizzare la morte individuale – inclusa la propria morte – e di affrontarla serenamente, cercando nel rito un supplemento di forze vitali, umane e divine, affinché i superstiti continuino la danza della vita.

Gli Occidentali avrebbero un estremo bisogno di approfondire il concetto dell’energia vitale, di cui si parla anche nel Vangelo: dal corpo di Gesù usciva una forza, un’energia vitale che faceva stare bene quanti incontrava. Noi dovremmo ricorrere a tali energie per rendere globalmente più bello il nostro vivere, non riservando a noi stessi solo sporadici momenti particolarmente forti, quando il cuore batte forte, ma cercando quell’equilibrio tra testa, cuore e mani che rende interessante l’avventura umana in ogni momento e in ogni stagione della vita.
Quando una persona riesce a stare bene con se stessa, automaticamente si circonda di persone significative, desiderose di essere legate da interessi comuni che aiutino a volare in alto. E con esse affronta serenamente i grandi temi dell’esistenza senza lasciarsi schiacciare dai problemi, ma cercando ovunque e da tutti stimoli per crescere in sapienza e grazia. Ovunque, anche dalla sofferenza.

Dopo tanti studi di filosofia e dopo aver ascoltato la sapienza umana di tanti popoli, sono arrivato alla conclusione che quanti non cercano un supplemento di energie vitali e rimangono a un livello puramente umano nei loro rapporti con il prossimo, difficilmente riusciranno a godere pienamente la vita e a capire il mistero del dolore. Senza il supplemento di energie dato da una fede, tutto – prima o poi – appare assurdo. Con una fede, «tutto è grazia».

Anche se non volessimo necessariamente fare ricorso alla fede, c’è un aspetto psicologico che non va trascurato: indipendentemente da quanto ha detto Cristo, per apprezzare la vita è necessario “morire”, cioè entrare fino in fondo nel dolore. Quando se ne esce, si è in grado di apprezzare tutto, di considerare ogni giorno come un dono che non può assolutamente essere sottovalutato, né tanto meno disprezzato.

Chi accetta questa intuizione, facilmente capirà l’importanza di “morire” giovani, per avere poi tutto il resto della vita da godere grazie alla sua “resurrezione”.

Viviamo in un’epoca in cui la nostra società fa di tutto per impedire il flusso di energie vitali; per esorcizzare, anzi, eliminare il dolore. Conseguentemente, non vive.

Nostro comune problema non è come uscire dal dolore, ma come entrarci intelligentemente, in modo da convertire in opportunità quello che umanamente parlando appare come un fallimento, una crisi, uno scacco matto delle umane possibilità. Trarre anche dal dolore energie vitali, come fece Cristo che – secondo l’Autore della lettera agli Ebrei – imparò dal dolore che cosa voglia dire essere “uomo”. Valentino Salvoldi

Valentino