"I passi dell'amore"

È la giornata della vita. Un parroco m’invita a celebrare una messa solenne, animata da giovani, con la speranza che il giorno dopo partecipino alla conferenza. Inizio l’omelia riassumendo il film di Benigni “La vita è bella”. Lo presento come “il quinto Vangelo”: un papà, animato da tanta fede, riesce a trasformare un campo di concentramento in una piazza in cui si partecipa a una gara a premi. Ciò permette al suo piccolo figlio di non perdere la speranza nella vita e di trasformare anche il dolore in un mezzo per accrescere l’amore.

I miei uditori hanno visto il film di Benigni e si aspettano da me una riflessione che li convinca a mettersi al servizio della vita, con la speranza che questa scelta serva innanzitutto a ciascuno di loro: prima di amare gli altri, non dobbiamo amare noi stessi?

Li invito a vedere il film“I passi dell’amore” cercando di fare attenzione alle problematiche della speranza, dell’amore, del perdono, ma soprattutto dell’incontro/scontro tra bene e male. Landon, modello di un’esistenza “sballata”, giovane egoista e superficiale, sfida gli amici a fare bravate che mettono a rischio la vita. Ma ribalta la sua esistenza quando incontra Jaime, simbolo del bene e della fede in un Dio che non si può vedere ma si percepisce, come il vento che accarezza il viso.

«Tutto vince l’amore». Il bene, per chi crede, sconfigge il male ed è più forte della morte. E il giovane gradasso e provocatore, di fronte alla sconcertante bellezza interiore di Jaime – figlia del pastore protestante – si converte, aiutato anche dalle parole di San Paolo sussurrate dalla ragazza sul letto di morte: «L’amore è paziente, è benigno l’amore; non è invidioso l’amore, non si vanta, non si gonfia, non manca di rispetto, non cerca il suo interesse, non si adira, non tiene conto del male ricevuto, non gode dell’ingiustizia, ma si compiace della verità. Tutto copre, tutto crede, tutto spera, tutto sopporta. L’amore non avrà mai fine».

Le obiezioni dei miei interlocutori durante la conferenza si basano quasi tutte sul rapporto bene – male, Dio – dolore. Vogliono capire che relazione ci sia tra queste due realtà antitetiche. E mi chiedono come mai, dopo aver visto tanta sofferenza soprattutto nei Paesi impoveriti, io sostenga l’urgenza di illuminare il mistero del dolore con la luce della fede. Come è possibile convertire la sofferenza in un provvidenziale mezzo per crescere in umanità e imparare “i passi dell’amore”?

Prendo in mano la Bibbia, do ai ragazzi un metodo che li possa aiutare a capire come vada letta la parola di Dio e condivido una intuizione: la Sacra Scrittura ci dà tante risposte quante sono le domande che noi le poniamo. Per esempio, un brano del primo capitolo del Vangelo di Luca (1, 26-38) mi darà risposte conformi alle mie aspettative: posso leggerlo per sapere che cosa sia capitato in quel preciso momento storico, oppure per conoscere le reazioni di Maria all’annuncio dell’angelo, o per scoprire con quale volto Dio mi si presenti in questa pagina. Se la mia domanda di fondo è: «Quale Dio?», ogni versetto mi farà capire che il Signore cerca realtà piccole (Nazareth), in un paese schiacciato dalla schiavitù (Palestina); è illogico nel scegliersi una vergine di tredici anni, desideroso di farsi conoscere come il Dio della gioia («Esulta, o piena di grazia») e dell’intimità («Il Signore è con te»). E così via, per ogni versetto…

Applico questo criterio a tutta la Bibbia, che leggo e rileggo ponendole diverse domande. Quando ho cercato di capire il significato del dolore, mi sono imbattuto in diversi modelli, che sinteticamente espongo.

- Modello delle origini: Dio crea ogni cosa bella, ma l’uomo provoca liberamente il male, che diventa fonte di grandi ingiustizie e di immani dolori, dei quali gli innocenti sono vittime. – Modello deuteronomico: il dolore fa parte della pedagogia divina, in quanto educa, purifica, fa maturare. – Modello sapienziale: il male non dipende sempre da colpe personali. Alcune cause sono nascoste in Dio che non va messo sotto processo: Giobbe, dopo la ribellione, giunge ad affermare: «prima del dolore ti conoscevo per sentito dire. Ora i miei occhi ti hanno visto». – Modello profetico: il dolore è un appello concreto lanciato all’uomo perché si converta. – Modello salmico: il male è presentato come una potenza demoniaca, contro la quale il credente non può che invocare Dio e invitarlo a essere fedele alle sue promesse. – Modello apocalittico: il conflitto tra il bene e il male viene superato appellandosi a un futuro che darà vita a «cieli nuovi e terra nuova». – Modello evangelico: la croce è la risposta a Qohelet e a Giobbe. Croce: simbolo di un amore che non ha limiti. Risposta dell’Uomo-Dio che prende su di sé i mali del mondo e li sconfigge con la Resurrezione, dopo essere “disceso agli inferi”, cioè dopo aver dimorato nel male dell’umanità, dopo aver bevuto il calice amaro fino alla feccia. Dopo aver «appreso dal dolore che cosa voglia dire essere uomo e ubbidire al Padre» (cfr. Lettera agli Ebrei). La croce… Realtà che non si dimostra, ma si adora. E adorandola, la si comprende nella sua misteriosa luminosità.

Che cosa mi può offrire questo metodo di lettura della Bibbia? La sofferenza rimane, ma la Parola mi dà una chiave d’interpretazione: senza Dio, il dolore è assurdo. E l’affermazione dell’ateo: «Dopo la morte cado nel nulla», non solo non offre una consolazione, ma aggrava la disperazione del sofferente. Questi, se fa sua la scelta di Cristo di essere per tutti un dono, redime il suo dolore, pensando alla stupenda intuizione di San Paolo: «Completo nel mio corpo quello che manca alla passione di Cristo».

Ma che cosa manca a Cristo? Manco io, che non sono santo. Mancano quei miei amici che non credono più in Dio. Mancano tante persone che, pur credendo, non pregano più e non sentono il bisogno di cibarsi del corpo e del sangue di Cristo. Mancano cinque miliardi di persone che non hanno mai sentito parlare del Vangelo.

Il sofferente, cosciente di questa situazione, può pregare per la propria e l’altrui redenzione; può prendere su di sé il dolore dell’innocente e offrirlo al Padre che, nei tempi e nei modi solo a lui noti, «cambierà il mesto incedere in passi di danza». Lui, che raccoglie in cielo le nostre lacrime per farne un diadema nella vita senza fine e per mutare l’odio in “passi d’amore” qui, su questa terra. Lui, che ci invita a fare nostra la risposta che Sant’Agostino ha dato al problema del male: «Ama e capirai».

Valentino