Ponte Nossa, 19 Dicembre 2011

Gioia: grande segreto del credente

Avrei avuto mille ragioni per essere demotivato a predicare gli esercizi spirituali in un convento di suore, in Liguria. Prevedevo che i laici sarebbero stati pochi: situazione sfavorevole alla comunicazione specialmente se gli uditori, oltre a essere esigui di numero, non sono molto preparati o interessati a un discorso teologico. Inoltre, dopo tanti incontri in vari Paesi africani, sentivo il bisogno di stare solo per parlare a Dio, anziché parlare di Lui. Oltretutto l’argomento: “Giobbe, la ragione inchiodata alla croce” non mi offriva tante prospettive di spaziare nei campi a me preferiti: teologia narrativa, divinizzazione del cristiano, gioia d’amare e di essere amati… Accettai comunque la sfida, anche perché speravo nella presenza anche solo di un gruppetto di vecchi amici, disposti ad aiutarmi a tenere le mani alzate verso il Cielo, così come Cur e Aronne avevano fatto con Mosè, sul monte.
Nella prima conferenza parlai di Dio che muta il nostro mesto incedere in passi di danza. Cercavo a ogni costo motivi per preparare me stesso e gli uditori ad affrontare le prove e le crisi della vita come opportunità e momenti di grazia. Sapendo però che il dolore può essere devastante, scarnificante e può far perdere la fede, sottolineavo l’importanza di arrivare alla soglia del dolore con una fede basata sulla memoria di esperienze belle, perché la bellezza e il ricordo delle esperienze positive vissute nel passato salvano il credente e il mondo. Arrivare ad affrontare il mistero del dolore con la determinazione a non considerarlo come un agente esterno che incute terrore, ma come una realtà che, introdotta in noi, diventa familiare, si addomestica, come aveva fatto la volpe con il piccolo principe, nel capolavoro di Saint-Exupery.
E così, mentre cercavo motivi per affrontare dignitosamente e in modo proficuo il mistero del dolore, citai Chesterton: “Il mondo finirà non per mancanza di cose meravigliose, ma per mancanza del senso della meraviglia”. Questa affermazione illuminò il volto di un amico, che non esitò a venire al microfono per regalare agli uditori le intuizioni altamente positive che aveva acquisito familiarizzando con le stimolanti opere del grande scrittore inglese.
Introdusse un discorso che poi fu portato avanti fino al termine degli esercizi spirituali: pure la gioia, al pari del dolore, è un mistero. C’è gioia quando c’è amore. E che cosa è Dio se non comunicazione, amore e gioia?
Dio è gioia. Al convito di nozze in Cana Cristo si presenta come Colui che, per  accrescere la gioia degli sposi e dei commensali e per renderla autentica, anticipa il tempo della sua manifestazione al mondo, anticipando la sua morte.
Può esistere un cristiano senza gioia? Sarebbe come… un cristiano senza Dio! Tanti cristiani dal volto spento e triste finiscono per testimoniare l’assenza più che la presenza di Dio. I veri credenti mostrano che la spinta alla felicità è legata a due atteggiamenti: il senso dello stupore, della meraviglia per quanto sperimentiamo giorno dopo giorno e la capacità di riconoscenza. Troppe persone cercano la felicità e l’amore senza rendersi conto che questi doni sono intorno a noi, nelle cose più semplici e quotidiane, come i fili d’erba nel prato, la nostra casa, la nostra famiglia, gli amici. Troppe persone dimostrano di essere piccole dentro, perché incapaci di ringraziare.
La misura di ogni felicità è la coscienza della meraviglia del nostro essere vivi e il senso di riconoscenza per quello che siamo, per quello che abbiamo, per la speranza che c’è in noi, per essere nel mondo senza essere del mondo: «Spesso ho preferito chiamarmi ottimista  per evitare la troppo evidente bestemmia del pessimismo. Ma tutto l’ottimismo dell’epoca è stato falso e scoraggiante, per questa ragione: che ha sempre cercato di provare che noi siamo fatti per il mondo. L’ottimismo cristiano invece è basato sul fatto che noi non siamo fatti per il mondo»(Chesterton).
Gesù ha fatto cose grandi scegliendo realtà deboli, ha fatto della debolezza la vera forza, ha trasformato il limite in grandezza: «Quando, in un momento simbolico, stava ponendo le basi della Sua grande società, – afferma il “gigante” della cultura anglosassone – Cristo non scelse come pietra angolare il geniale Paolo o il mistico Giovanni, ma un imbroglione, uno snob, un codardo: in una parola, un uomo. E su quella pietra Egli ha edificato la Sua Chiesa, e le porte dell’Inferno non hanno prevalso su di essa. Tutti gli imperi e tutti i regni sono crollati, per questa intrinseca e costante debolezza, che furono fondati da uomini forti su uomini forti. Ma quest’unica cosa, la storica Chiesa cristiana, fu fondata su un uomo debole, e per questo motivo è indistruttibile. Poiché nessuna catena è più forte del suo anello più debole».
Gesù ha vissuto l’incerto confine tra gioia e dolore, senza mai nascondere i suoi sentimenti: «Il suo pathos fu naturale, quasi casuale. Gli stoici antichi e moderni ebbero l’orgoglio di nascondere le loro lacrime. Egli non nascose mai le Sue lacrime. Egli le mostrò chiaramente sul Suo viso aperto ad ogni quotidiano spettacolo come quando Egli vide da lontano la Sua nativa città. Ma Egli nascose qualche cosa. I solenni superuomini, i diplomatici imperiali sono fieri di trattenere la loro collera. Egli non trattenne mai la sua collera. Egli rovesciò i banchi delle mercanzie per i gradini del Tempio e chiese agli uomini come sperassero di sfuggire alla dannazione dell’inferno. Pure Egli trattenne qualche cosa. Lo dico con riverenza: c’era in questa irrompente personalità un lato che si potrebbe dire di riserbo: c’era qualche cosa che egli nascose a tutti gli uomini quando andò a pregare sulla montagna: qualche cosa che egli coprì costantemente con un brusco silenzio o con un impetuoso isolamento. Era qualche cosa di troppo grande perché Dio lo mostrasse a noi quando Egli camminava sulla terra; ed io qualche volta ho immaginato che fosse la Sua allegrezza».
Gesù, forse per pudore, ha velato la sua intima gioia e ha voluto imparare dal dolore che cosa significhi essere uomo: è nato come tutti noi, ha condiviso la stessa avventura umana e, quando ha chiesto al Padre di essere liberato dalla morte, “fu esaudito”, dice la Lettera agli Ebrei. Come? Con l’ineffabile gioia di sconfiggere la morte nella radiosa alba della Resurrezione.
Sul Calvario, il mistero del dolore esplode nel mistero della gioia. Gioia che diventa il grande segreto del cristiano che converte gli increduli non tanto con le parole, quanto con il suo volto pudicamente circonfuso di intima gioia.

Valentino