Non c'è fede senza seduzione 

Un rasta che coglie il nettare da ogni religione, per arrivare ad una nuova spiritualità, per un’era nuova. Un ateo pensoso che all’iniziale silenzioso e garbato rifiuto di confrontarsi con la mia fede passerà – ahimè troppo tardi – alla ricerca di ciò dà senso alla mia vita. Un’agnostica curiosa, che alla mia proposta di cercare Dio risponde: “È già un successo essermi messa alla ricerca di me stessa”. Quest’ultima è una francesina, fuggita dal sua Paese in cui la parola “pasqua”  fa ricordare solo il cioccolato…
Tre incontri di questa settimana santa che vivo su un’isola dell’oceano Indiano, a poche miglia dal Madagascar. Qui mi hanno indirizzato i padri Monfortani per farmi capire che cosa sia la missione oggi, in condizioni analoghe a quelle che i primi missionari sperimentarono nel XVIII secolo. Da allora in quest’isola nulla è cambiato: non ci sono strade, né elettricità, né acqua corrente. Piccola isola con duemila abitanti, dei quali quattrocento cattolici. Il parroco fa loro visita una volta all’anno: i catechisti, rigorosi guardiani della tradizione, s’impegnano a tenere viva la fede. Sono loro a dirmi come deve essere svolta la liturgia del triduo pasquale. Fanno i cerimonieri. E non accettano che consacri del pane comune, per evitare lo “scandalo” e si sobbarcano così alla fatica di un lungo, estenuante viaggio in piroga prima, e in barca poi, alla ricerca di ostie da consacrare.
Faccio chilometri e chilometri in bicicletta; attraverso la foresta; sono trasportato in canoa che soprattutto di notte mi permette di andare in estasi, sotto un cielo inondato di stelle che diminuiscono a poco a poco allo spuntare della luna piena. Un cammino di luce sul mare. Un crescente stupore che fa rallentare il vogare quando mia nipote Maria Rosa – che mi ha raggiunto dal Sud Africa per passare con me la pasqua e aiutarmi nelle analisi politico-sociali – intona il canto: “Che gioia ci ha dato, Signore del cielo, Signore del grande universo … Tu hai vinto il mondo Gesù, liberiamo la felicità. E la morte, no!, non esiste più, l’hai vinta tu. Hai salvato tutti noi”.
E il canto è intonato allo spuntare del sole, mentre stiamo andando a celebrare la prima messa al villaggio, in lingua malgascia, la mattina di pasqua: il sole che spunta è vivida immagine del Risorto, al quale chiediamo di liberare la felicità.
Benché abbia le ossa rotte, il corpo turbato dagli antimalarici e tutto coperto da piaghe causate da un’allergia o da una infezione, il cuore canta di gioia per questa vita che dalla fede trae un supplemento di energie, di speranza e di entusiasmo.
Certo, questo luogo non è fatto per i turisti che qui non troverebbero alcuna delle facilitazioni che essi si aspettano quando vanno in vacanza. Ma proprio il nulla delle proposte della civiltà dei consumi ha attirato qui il rasta, l’ateo pensoso e la giovane francesina alla ricerca di se stessa. Con loro discuto, forse, invano: metto nel mio parlare tutta la mia teologia, ma non tutto il mio cuore, né quegli sprazzi affettivi necessari per incontri con Dio, come quelli che si creavano ai campi scuola, là dove l’entusiasmo dei  giovani convertiva altri giovani.
Al rasta ho chiesto di permettere al silenzio di fare ordine dentro di lui, evitando il rischio del sincretismo e il pasticcio della New Age. All’ateo ho dato lo schema delle conferenze che la settimana prossima farò ai religiosi malgasci sulla Parola che è efficace quando nasce dal silenzio, in quel deserto che il Signore ha proposto al suo popolo per purificarlo, per parlargli come un amico parla all’amico, per sedurlo per quarant’anni, per elemosinare il suo amore. E alla francesina?  A lei devo il grazie per avermi medicato e dato medicinali che invano avrei cercato su quest’isola. Ma soprattutto il grazie per essere passata dall’idea che la pasqua fosse sinonimo di cioccolato, al darmi la soddisfazione di intravederla, nascosta dietro una palma di un bellissimo giardino, mentre celebro l’eucaristia per i credenti di lingua francese.
La sua presenza,  assieme a quella di Maria Rosa e di alcuni cooperanti francesi che lavorano nel Madagascar, in quel giardino dove un gruppetto di lemuri curiosi e golosi vengono a rubare i fiori dell’altare e se li mangiano tutti soddisfatti, mi porta ad improvvisare un’omelia, dettata anche dall’immagine del corpo di Cristo devastato dai flagelli.
In un giardino comincia la passione che termina in un altro giardino. Nel primo gli ulivi sono testimoni del pianto di un Dio e del  suo sudore di sangue, deterso da un angelo muto, fuggito, pietoso, dal cielo a sorreggere l’amaro calice.
Nell’altro giardino i mandorli in fiore vedono l’angelo mandato dal cielo a rotolare il pesante macigno, posto a sigillo delle bocca degli inferi. Nessuna tomba può imprigionare l’Amore dal quale è sgorgata ogni vita. Quel Cristo che per i nostri peccati era morto, per la nostra vita ora è risuscitato.
Tra i due giardini erta si erge la croce, arcana testimone dell’assurda agonia del corpo devastato dai flagelli, del corpo riplasmato dal sepolcro, come nel ventre della Vergine Madre.  Croce, fonte di nuova vita, per chi s’abbandona all’ebbrezza dello Spirito, ultimo dono del Cristo morente  e dolce, soave, definitiva seduzione.

Valentino