Un Volto riflesso nell’acqua sporca

Nell’isola di Santa Maria, a poche miglia dal Madagascar, la sera del giovedì santo, compio il rito della lavanda dei piedi a dodici malgasci. Piedi callosi,  abituati a percorrere scalzi foreste e colline, su rossi sentieri battuti da secoli dai loro padri, alla ricerca di acqua e di quelle erbe che la povertà aiuta ad apprezzare e strappare dalla terra. Erbe che, aggiunte a un po’ di riso, illudono lo stomaco, giorno dopo giorno. Sempre con lo stesso cibo, quando c’è.
Sono lì, seduti davanti all’altare. È il loro giorno di gloria: tutti gli occhi sono fissi su di loro in attesa che il missionario bianco si  inginocchia davanti a loro per lavare i loro piedi e baciarli, con riverente rispetto, quasi un’ adorazione.
Pensando alle innumerevoli lavande dei piedi celebrate durante le cene ebraiche ai campi scuola, sono emozionato. Mi batte forte il cuore. E cerco, invano, di nascondere i miei sentimenti non guardando in faccia al primo cui lavo i piedi. Nell’acqua, ancora pulita, mi posso specchiare per qualche attimo. Ma essa subito diventa rossa, sempre più rossa, man mano il rito procede. Rosso che mi rimanda al sangue di Cristo, nell’orto degli ulivi e sul Golgota.
Il più giovane rappresentante dei dodici apostoli nota i miei occhi lucidi e quando gli bacio i piedi mi restituisce il bacio sulla mia testa china.
Durante l’omelia faccio notare che S. Giovanni non parla dell’istituzione dell’eucaristia, ma nel descrivere il rito della lavanda dei piedi usa le stesse immagini alle quali ricorrono i Sinottici per tramandare quanto Gesù fece e insegnò quella notte: li invitò a lasciarsi lavare i piedi, lasciarsi amare, e lavare i piedi ai fratelli “in sua memoria”. Sembra voler dire che questo umile servizio vale quanto un’eucaristia: “Fate questo in memoria di me”.
Davanti a me quel bacino di acqua sporca mi rimanda al dipinto del prete tedesco, il pittore Sieger Koder che giunge all’apice della sua arte proprio nel quadro della lavanda dei piedi. Gesù e Pietro sembrano amalgamati da un profondo inchino. Amalgamati nonostante la mano sinistra di Pietro sembri richiedere un distacco: “Non laverai i miei piedi in eterno”. Non si vede il volto di Cristo, coperto dai paludamenti ebraici, ma i suoi lineamenti si riflettono nella sporca acqua con la quale il Maestro lava il discepolo.
Pietro non guarda il volto di Gesù, ma i suoi piedi, come se pensasse alla lunga strada che deve ora percorrere sulle orme del Salvatore che gli chiede, non di capire, ma di lasciarsi amare:“Quello che faccio ora, tu non lo capisci, ma lo capirai dopo”. Non conta tanto il capire, quanto il lasciarsi amare, il permettere all’incontro di restare fisso nella memoria, fino al giorno in cui tutti i tasselli del mosaico si completeranno e allora finalmente capiremo e  cadremo in ginocchio, sospirando: “Signore mio e Dio mio”.
Che cosa rimarrà di questo rito ai dodici malgasci? Non certo la mia omelia, ma il mio bacio sui loro piedi. E a me rimarrà il loro canto, la loro gioia, la loro danza che si protrae nella notte.
Sento i loro canti mentre, in piroga, mi immergo piano, piano nell’oscura notte, verso il mio bungalow, cullato dal dolce sciabordio delle onde.
Prego per i fedeli che sono tanto contenti perché – in confronto con il rito che solitamente conduce il catechista  – hanno celebrato una “vera” eucaristia: ciò per loro capita una volta all’anno.
Prego per tutti i giovani che partecipavano ai miei campi scuola e vivevano con gioia le quattro ore della cena ebraica, dove a tutti – anche quando superavano il centinaio – lavavo i piedi.
Prego soprattutto per coloro che si sono allontanati dalla Chiesa perché non hanno saputo vedere riflesso nell’acqua sporca il volto santo del Maestro. Hanno visto solo acqua sporca e hanno smesso di cercare il Signore. Non hanno pensato che potevano trovarlo ovunque, anche nel loro peccato, in situazioni difficili, sofferte, nei piedi callosi e gonfi dell’apostolo Pietro … e dei suoi successori e dei preti di oggi che, forse, non sono santi, anche perché non aiutati ad esserlo da cristiani buoni, clementi e misericordiosi.
Da lontano sento ancora il rullo dei tamburi dei cristiani rinati nell’umile tinozza nella quale hanno visto specchiarsi nella loro umanità il volto dell’eternità.

Valentino