Ponte Nossa, 25 Novembre 2010

Agli amici che pregano per mia madre

Ringrazio, anche a nome di mia madre, tutti gli amici che stanno pregando perché la volontà del Signore sia la nostra pace. Dio dà ai miei fratelli e a me la grazia di avere una mamma che, sul letto di morte, è ancora lucidissima di mente, prega tanto e, per chi le fa visita, con pochissime parole, dona una speranza in cui, l’umano, amalgamato al divino, apre alla speranza. Ogni sera, in casa, celebriamo l’eucarestia: esperienza sublime che non voglio rovinare balbettando parole umane. Qui si respira la vera “pietas”.

Quando gli antichi romani ricorrevano a questa parola, alludevano allo sguardo del genitore morente nei confronti del figlio che, in silenzio, gli teneva la mano. In questo supremo momento ogni parola è vana, anzi, rovina il mistero. In questi giorni, al capezzale di mia madre, i cui occhi sono spesso rivolti al cielo, assetata della luce del sole e della vivida luce che esso rappresenta, continuo a ringraziare Dio per la fede, per la vita e per la mia famiglia.

La fede. Giano bifronte. Da una parte è un dono ineffabile che mi dà pace: “nulla andrà perduto”. Tutto ritroverò, rinnovato e purificato, nel regno della vera vita.

Ritroverò il bambino che cercava sicurezza tre le braccia della mamma ed era addormentato con quello stesso respiro che pure ora culla queste notti, mentre attendo l’ora in cui il Signore chiamerà a sé mia madre.

Ritroverò tutte le sue attenzioni nei miei confronti, tutti quei gesti che ora compio – con solennità ieratica – nei suoi confronti. Lei mi fece imparare a camminare, io reggo i suoi ultimi passi. Lei m’imboccò, ora io posso solo cercare di spegnere con poche gocce d’acqua la bruciante arsura della sete. Lei mi insegnò a pregare, io le sussurro all’orecchio le stesse sue preghiere che risuonano in lei quale provvidenziale balsamo e invocazione: “Vieni, Signore Gesù”.

La fede, d’altra parte, mentre mi consola, mi richiama a quel “ora della nostra morte” che per tutta la vita mi è stata presentata come la prova suprema. “Dies iræ, dies illa…”. Si spalanca il libro su nel cielo, e nulla rimarrà nascosto. Certo sappiamo che Dio è “buono, clemente e misericordioso”, ma è anche giusto. E se non lo fosse, farebbe un’ingiuria all’ingiustizia.

La fede, mentre apre alla speranza che tante preghiere non possono cadere nel nulla, fa sospirare al pensiero che Dio non accoga la supplica di chi solo chiede di vedere al più presto il suo volto. La fede, mentre fa intuire che non dobbiamo soffrire al pensiero che la persona amata vada là dove pure noi aspiriamo di andare, mi turba con la domanda: “… e se anche tu fossi escluso dall’Amore?”.

La vita. Dono tanto più prezioso quanto più percepito nella sua fragilità, unicità, irripetibilità. Certo, quanto più si è sensibili e coscienti del tesoro inestimabile della nostra esistenza, tanto più si soffre di fronte alla sua precarietà. E non si vorrebbe che venisse a mancare colei che fu il tramite più prezioso per venire alla luce. Ma alla scuola del dolore, ecco aprirsi nuove prospettive: noi non siamo fatti per il dolore e per la morte. Dio non ha voluto la sofferenza: l’ha subita e ne è la prima vittima. L’ha presa su di sé e l’ha ammantata di speranza nella luce della Resurrezione: il meglio di noi vivrà eterno, quando “Dio sarà tutto in tutti”, dopo aver sconfitto “l’ultimo nemico: la morte”.

La famiglia. Mi convinco sempre più che io prevalentemente sono ciò che ho ricevuto dai miei familiari. Questo corpo. Tutti i valori spirituali, naturali, soprannaturali. Questo mio modo di essere, pensare, agire, amare, soffrire e sognare. Tutto ha un’impronta divina e … familiare. Ciò mi porta a pregare perché si salvi la realtà della famiglia. Se questa si sfascia, crollerà la vecchia Europa.

E con riconoscente affetto prego per la famiglia estesa, che comprende gli amici e tutti quelli che hanno fatto assieme a me una esperienza di fede. Per loro, come Cristo durante l’ultima cena, supplico: “Padre, nessuno vada perduto”.

Valentino