Con lo sguardo rivolto a Betania

L’aereo che mi sta portando in Nigeria, facendo il primo scalo a Parigi, non vola sopra il Friuli, là dove tanto ho pregato, sperato e sognato.
Quando posso scegliere, prendo gli aerei che, diretti verso l’Africa, mi fanno guadagnare il cielo con lo sguardo rivolto al paese di mia madre, dove sento gli amici come figli. Anche Gesù – dice S. Luca – salì al cielo con lo sguardo rivolto a Betania, là dove abitavano coloro che egli amava: Maria, Marta e Lazzaro.
Ricordo che una volta, diretto verso Mosca, con il viso incollato al finestrino, passò una hostess per offrirmi tartine di finto caviale. Quando vide che stavo piangendo, mi disse di continuare pure …, lei sarebbe passata dopo. E quando tornò, discretamente, chiese se avessi dei problemi. Spiegata la situazione, mi domandò se nel paese della mamma avessi molti amici. Risposi: “170 famiglie”.

“Cristo imparò dal soffrire che cosa volesse dire essere uomo”. Fra le tante lieti e tristi esperienze da lui fatte, perché come ultimo messaggio ha voluto lasciarci quello sguardo rivolto a Betania? Anche per lui l’amicizia fu un sacramento. Lui che ha voluto essere libero da tutto, per esser di tutti. Il più umano e il più trascendente. Per tutti un dono, anche per chi lo rinnegherà tre volte, cioé totalmente e per chi lo tradirà con un bacio sulle labbra.

Che cosa avrà provato Gesù guardando a Betania? Aveva la metà dei miei anni, quando si staccò dagli amici. Avrà sofferto la metà di quello che soffro io?
Va bene che Lui era il Figlio del Padre. Ma anche io sono un figlio di Dio e, invecchiando, coloro i sentimenti del passato con un alone mistico. Li vedo come il fondamento di una fede che ora vive di fedeltà: “Signore, ti do credito perché, nel passato, c’eri tu tra me e i miei amici”.

Sto scrivendo queste idee mentre volo sopra il deserto del Sahara. Da Tripoli a Tammarasset ho celebrato l’eucaristia: quasi due ore davanti al pane e al vino, in questo angolo di paradiso, che facilita la mia preghiera, fatta di meditazione, consacrazione e supplica.

Meditazione. Il mondo senza Dio diventa un’estenuante, arida e vuota distesa di nulla. Sabbia e solo sabbia, per chi non crede. Diventa invece sorgente di speranza per chi concede a se stesso il privilegio del silenzio, là dove l’esasperante nulla diventa una possente invocazione del Tutto. Ed è un rimando all’evidente constatazione che la mancanza di beni materiali aiuta ad adattarsi a tutto, mentre l’abbondanza dei beni porta alla mancanza del Tutto: conseguentemente più nulla ha senso.

Consacrazione. Il deserto mostra quanto sia vecchia questa nostra terra. Sembra un corpo con rughe, solchi e ferrite, ricoperte da un’immensa “distesa di segatura”. Questa arida solitudine è ravvivata di tanto in tanto da dune che il vento plasma come voluttuosi corpi. Su questa dune incedono dignitosi Tuaregh, orgogliosi di essere incomparabilmente più belli di tutti gli altri esseri umani, appunto perché figli dello sconcrtante silenzio e delle tacite stelle, secure guide del loro incessante cammino.
È questa vecchia terra che dall’alto del cielo consacro, mentre rivado all’esperienza fatta ad Agadesh: non avevo né pane né vino e al tramonto – quegli infocati tramonti che solo l’Africa, per pochi minuti, regala – “consacrai” il sole, quale immensa ostia dell’universo.
Sole, immagine di Cristo, che trionfante e gagliardo esce dal suo talamo nuziale e percorre il cielo, creando ovunque albe e tramonti con la stessa luce.

Supplica. Che per tutti ci sia una Betania e un vaso d’alabastro contenete il nardo, profuno che simboleggia l’amicizia. Unguento costosissimo (trecento denari) per comperare il quale bisogna lavorare un anno intero. Serve per ungere i piedi a Cristo, l’amico che invera ogni amicizia e fa dono di un ultimo sguardo, con un ineffabile sorriso. Tacita premessa per far fiorire il deserto.

Valentino