Angkor, Cambogia

“Pàapa, gnam gnam”

Far circolare le ricchezze dei poveri: ecco il mio proposito per il tempo pasquale. Voglio cogliere ovunque semi di speranza, pensando alle esperienze che ricevo in dono nei diversi paesi delle terre di missione. Dalla Resurrezione attingo la forza di spezzare il pungiglione della morte che la società va seminando ovunque. La morte dei rapporti che diventano sempre più precari o svaniscono. La morte dell’indifferenza fratricida. La morte del ripiegamento su di sé, fonte di angoscia e anticipo dell’inferno, qui su questa terra.

E contro l’inferno – che non esiste dall’eternità, ma è costruito di volta in volta da chi rifiuta l’Amore – ecco crearsi lembi di paradiso, là dove, nei piccoli e nei poveri, si intravedono i lineamenti del Dio fatto Uomo: Cristo. Egli, anche nel silenzio, nell’anonimato, lavora per proporre a tutti la salvezza, rispettando i tempi e le culture dei vari popoli.

Mi trovo in Cambogia in quella che fu la capitale dell’Impero Khmer, Angkor. Appena terminato gli incontri con alcuni membri del clero del sud-est asiatico, mi concedo il privilegio di visitare i più antichi siti archeologici salvati dalla foresta: stupendi templi induisti e buddisti risalenti al IX e XI secolo. Mi aggiro tra i portali finemente decorati pensando alle agili figure di donne che si muovevano con grazia nelle loro variopinte sete. Donne poi sostituite dall’invadente presenza di monaci buddisti, avvolti in panni di colore arancio e prostrati davanti a Buddha, con i monotoni ed estenuanti canti dei mantra.

Davanti ad alcune statue di Buddha, persone anziane fanno “il sacrificio dell’incenso”, le prostrazioni di rito e le immancabili richieste di elemosina. Agli anziani, in ogni angolo, fanno da contrappunto i bambini che cercano di vendere di tutto e quando si vedono rifiutare la loro merce, ecco il ricatto: “One dollar, to go to school” (un dollaro, per andare a scuola). Hanno imparato dagli stranieri la lezione e l’hanno “inculturata”: hanno capito che rende bene chiedere un dollaro per imparare a leggere e scrivere e, anziché studiare, imparano in tutte le lingue: “Un dollaro, per andare a scuola”. Il mio desiderio di immergermi nei mille anni di storia indocinese è continuamente interrotto dalle petulanti richieste di soldi.

Arriva il momento di prendere la via del ritorno. Sono le tre del pomeriggio, c’è un afa che toglie il respiro e le forze. Penso sia opportuno mangiare l’ultimo piatto di riso e bere l’acqua della noce di cocco. In mancanza di questa, chiedo una birra alla spina. Mentre sto per sedermi, mi accosta un bambino di otto-dieci anni che mi addita il fratellino handicappato. Mi prende per mano. Mi accarezza il braccio con la sinistra e porta la desta alla bocca: “Pàapa, gnam gnam”.
Pàapa, papà, papi … Nome che io ho avuto il privilegio di invocare per anni. Nome con il quale mi rivolgo a Dio. Nome che mi fa battere il cuore quando una persona amica,anziché ringraziarmi, mi sussurra :“Papi”.

“Pàapa, gnam gnam”. Lui ha fame e io, forse, mangio per imbrogliare il tempo, per non pensare al viaggio che durerà più di 24 ore. Lui ha fame e io penso alla birra spumeggiante che presto mi sarà servita e che berrò giocando con le bollicine, ricordando le interminabili discussioni notturne con tanti amici, parlando di Dio, davanti al bicchiere di birra. Lui ha fame…

Non ho moneta locale. Vado dalla giovane cambogiana alla quale avevo ordinato riso e birra e le chiedo un po’ di spicci. Il bambino li accetta con dignità. Non sorride. Solo fa un inchino e va verso la madre che culla il fratellino handicappato.

Torno dalla giovane cambogiana, le dico che ho sbagliato a ordinare da mangiare perché, realmente, non ho fame. Mi tradiscono le lacrime che spudoratamente non si vogliono fermare.
“È cattolico?”, mi chiede la giovane cambogiana. Mi incuriosisce la domanda e mi sorprende la ripresa del suo discorso: “Io sono buddista, ma ho studiato nella scuola cattolica. I nostri monaci, poveri figli di questa terra, mendicano riso e noi lo diamo loro per acquistare merito. I monaci buddisti chiedono, i preti cattolici danno. I buddisti aspirano al nulla, voi cattolici al tutto. I buddisti non si turbano, non desiderano, non si commuovono. Voi cattolici riuscite a piangere davanti a quella manina tesa…”. E mi offre la birra con le noccioline non richieste.

Nel sud-est asiatico, attualmente, è impossibile un dialogo interreligioso. È possibile solo il dialogo della vita, dialogo della carità, dialogo della testimonianza gioiosa della speranza. Gioiosa anche quando passa attraverso quelle lacrime delle quali pure si accorge Dio. Lui ha sentito il grido degli Ebrei oppressi dal faraone in Egitto. Si è commosso delle catene del suo popolo in schiavitù a Babilonia. Ha avuto pietà delle lacrime del giovane re Ezechia che non voleva morire: “Ho visto le tue lacrime, aggiungerò giorni ai tuoi giorni”.
Vede le nostre lacrime, “e le conserva lassù negli otri suoi, nel cielo”, e ne fa diademi per le corone di gloria riservate ai poveri di beni materiali, ma ricchi della forza di sperare.
Diademi dei poveri sono le stelle, che i ricchi non possono godere. Non è loro permesso rubarle ai poveri. Non riescono a contaminare quel cielo che appartiene al piccolo mendicante cambogiano e alla giovane cameriera che ha visto le mie lacrime e le ha valorizzate con una acuta intuizione sul dialogo interreligioso, con una birra e con le noccioline.

Il ragazzo che sente come sua la fame del fratellino e la sensibilità della giovane cambogiana ancora una volta mi convinco che il dialogo tra le religioni è possibile – e sarà fonte di pace – quando ci accorgeremo gli uni degli altri, torneremo a commuoverci e lasceremo alle lacrime il compito di dire quanto la parola non può esprimere: “Dio mio, Dio mio perché mi hai abbandonato?”. Domanda che trova risposta all’alba della resurrezione.

Valentino