Ponte Nossa, 10 Aprile 2010

Croce: "Collocazione provvisoria".

Il crocefisso in restauro, nella sagrestia, porta la scritta: “Collocazione provvisoria”. Il vescovo don Tonino Bello supplica il parroco di non rimuovere mai quel cartello, perché per il credente la croce non è la meta del nostro pellegrinare. Siamo fatti per camminare verso la resurrezione. Il Calvario non ammette soste prolungate: dopo tre ore c’è la rimozione forzata.

Con questa immagine inizio l’omelia pasquale , durante la messa solenne, nel mio paese natale, grato a Dio per il privilegio di celebrare i riti sacri là dove fui battezzato, dove fin da bambino servivo all’altare, e poi ricevetti i sacramenti dell’iniziazione cristiana… fino alla prima messa, che rivivo sempre con trepidazione ad ogni ritorno dai paesi in terra di missione. I compaesani mi accostano con familiarità, non nascondendo i loro problemi. Mi informo di figli, nipoti, amici e trovo una costante che mi preoccupa: troppe persone non tornano più in paese, perché hanno fatto degli sbagli e non hanno più il coraggio di affrontare l’opinione pubblica. Qui, come altrove. E mi pongo una domanda: perché i cristiani non perdonano se stessi?

Peccano contro la speranza in quel Dio che non è interessato al nostro peccato, ma al nostro benessere integrale, alla salute dell’anima e del corpo, all’accettazione della Resurrezione che è un inno alla vita, che esplode nella convinzione: è risorto! Possiamo ricominciare con gioia.

È risorto per chi cerca senza mai trovare, per chi dubita o è scettico, per chi chiede senza trovare risposte, per chi sembra indifferente mentre ha un cuore che scoppia, per chi ha tradito e non si sente perdonato.

È risorto e ha una parola di speranza da dire al giovane che cerca la libertà, all’adulto che aspira ad essere autentico, all’anziano cui basta l’essenziale, al morente che intravede cieli nuovi e terra nuova.

È risorto e la sua morte genera vita, paradosso possibile solo a Dio che vuole far brillare il suo volto sul nostro volto e comunicarci la pace.

“A che serve sognare il giorno di pasqua – mi chiede un compaesano – se domani comincerò ancora la stessa vita, con le stesse rogne e le stesse croci?”. Torna il concetto di “croce” non vista come trampolino di lancio verso la resurrezione, ma pietra di inciampo, pietra di scandalo, per chi non si allena a vivere con quella speranza che caratterizzò la vita di Fabrizio De Andrè e che gli faceva cantare: “Gioia e dolore hanno un confine incerto”.

Con questa obiezione in mente, nella messa vespertina di pasqua, illustro “La Buona Novella” di De Andrè, dalla quale mi sembra di capire che la fede è un dono, l’amore è un bisogno e la speranza è la virtù per eccellenza che ha reso grande Maria e ha fatto ritenere Gesù “Figlio di Dio”. Alla Mamma del Salvatore il Cantautore consacra versi stupendi:

“Ave Maria, adesso che sei donna,
ave donne come te, Maria,
femmine un giorno per un nuovo amore
povero o ricco, umile o Messia.
Femmine un giorno e poi madri per sempre
nella stagione che stagioni non sente.

Sai che fra un’ora forse piangerai
poi la tua mano nasconderà un sorriso:
gioia e dolore hanno il confine incerto
nella stagione che illumina il viso”.

Maria tutti noi riassume e rappresenta, lì, ai piedi della croce, dove la sua fede è messa alla prova, nel confronto tra suo Figlio che muore per risorgere e gli altri suoi figli, come i ladroni, che sembrano morire per sempre, agli occhi delle loro madri. Assieme a loro piange Maria:

“Piango di lui ciò che mi è tolto,
le braccia magre, la fronte, il volto,
ogni sua vita che vive ancora,
che vedo spegnersi ora per ora.

Figlio nel sangue, figlio nel cuore,
e chi ti chiama – Nostro Signore -,
nella fatica del tuo sorriso
cerca un ritaglio di Paradiso.

Per me sei figlio, vita morente,
ti portò cieco questo mio ventre,
come nel grembo, e adesso in croce,
ti chiama amore questa mia voce.

Non fossi stato figlio di Dio
t’avrei ancora per figlio mio”.

Meglio un figlio dell’uomo vivo o un figlio di Dio morto? Povera donna, Maria, quanto le è costata la sua fede! Ma è la speranza di Maria che affascina il Cantautore che non teme di affermare: “Io nel vedere quest’uomo che muore, madre io provo dolore; nelle pietà che non cede al dolore, madre ho imparato l’amore”.

Grande è Maria per la speranza insegnata a suo Figlio che vive, muore e risorge per far vivere l’umanità alla luce del discorso della montagna. Discorso che i suoi discepoli porteranno in tutto il mondo: “La semineranno per mare e per terra/ tra boschi e città la buona novella”. E questa avrà come uditori privilegiati “gli umili e gli straccioni”: “Sono pallidi al volto/ scavati al torace,/ non hanno la faccia di chi si compiace/ dei gesti che ormai ti propone il dolore,/ eppure hanno un posto d’onore”.

Con De Andrè canto la speranza dei poveri. Poveri di beni materiali ma ricchi di quella fede che li rende felici al pensiero che Cristo era uno di loro. I poveri non si sentono schiacciati dai loro peccati: sanno che Cristo ha pagato per loro. I poveri non hanno nulla da perdere con la morte: sperano, anzi credono che due braccia li attendono “oltre il muro d’ombra”. I poveri si possono permettere il lusso di cantare: “Dio del cielo, se mi vorrai /in mezzo

Valentino