Ponte Nossa, 28 marzo 2010

“Chi è senza peccato…”

“Ecco, io faccio nuove tutte le cose”: così inizia la liturgia della Parola della quinta domenica di quaresima (anno C 2010). Attraverso il profeta Isaia parla il Signore, al quale non interessa un passato di peccato e di miseria: nell’arida steppa, nel deserto, fa sgorgare acqua zampillante che purifica e dà vita. Le nostre iniquità non sono più grandi della divina misericordia, magistralmente illustrata nell’ottavo capitolo del Vangelo di Giovanni, là dove Cristo dice all’adultera: “Nessuno ti ha condannata? Neppure io. Va in pace”. A Lei Cristo non dice: “Non peccare più”. Questa è un’aggiunta posteriore, non presente nei testi più antichi.

Forte di queste letture, arricchito dall’esperienza di tante confessioni e “ridimensionato” dal concetto di peccato degli Africani, abbastanza diverso rispetto a quello che angoscia gli Occidentali, in un grande santuario mariano mi dilungo, nell’omelia, a cantare la misericordia dell’Altissimo. Parlo di una prostituta che, da me assolta dopo venticinque anni di degradante umiliazioni nel suo povero corpo, diventa suora di clausura. Scandisco e ribadisco l’idea che io non sono il mio peccato. E invito i fedeli a dare al Signore la possibilità di godere nel perdonarci, perché “si fa più festa in cielo per un peccatore pentito, che per novantanove giusti…”.

Quando mi ritiro in camera, trovo una lettera, fatta scivolare sotto la porta: “Padre, lei ha detto che non ama mettersi in confessionale e preferisce celebrare con gioia il sacramento della riconciliazione davanti al Santissimo. La prego di fare un’eccezione. Tra una messa e l’altra, domani trovi un momento per mettersi in confessionale, dietro la grata. Non voglio che il mio sguardo impuro contamini il suo e abbia pietà della vergogna che ho di me stesso”.

Dopo tre giorni di viaggio di ritorno dal Malawi e dopo una giornata spesa a casa a sbrigare la corrispondenza, speravo di avere un sabato notte tranquillo. Invece quella lettera mi turba al pensiero che, come prete, devo continuamente fare i conti tra l’altezza della mia missione e la debolezza delle mie forze. Spesso ci sono grandi aspettative nei miei confronti, che mi fanno sentire inadeguato a dare risposte significative: non pochi penitenti vogliono incontrare il teologo disposto a trovare una scappatoia di fronte alle ferree leggi della morale cattolica. Hanno letto i miei libri, mi hanno sentito parlare, si aspettano novità da colui che afferma di essere passato dal monte Sinai al monte delle beatitudini. Dalla legge all’amore. Dal “Tu devi”, al “Tu puoi”.

Mentre, nella veglia notturna, mi chiedo come sia possibile scoprire la grazia dentro la mia fragilità, mi viene in mente il “Diario di un curato di campagna” di Bernanos. Avevo letto a diciotto anni la storia di quel “pretino” che non era accettato perché, figlio di alcolizzati, benché non potesse sopportare il vino, aveva l’aria di un ubriacone. Il conte d’Ambricourt aveva parlato male di lui al suo vescovo, che a malapena lo conosceva. La contessa diceva che quel curato era la vergogna del villaggio. La maestra gli aveva scritto una lettera pregandolo di andarsene. Lui, un santo! Un santo che soffriva per l’indifferenza e la volgarità dei suoi pochi parrocchiani, per la noia che era ovunque palpabile, per l’atmosfera generale appesantita da una tradizione, un linguaggio e una retorica ormai incomprensibili e vuoti di significato: “Che cosa importa a Dio il prestigio, la dignità, la scienza – si chiedeva il povero curato – se tutto ciò non è che un sudario di seta su un cadavere putrefatto?”.

Ciò che lo sosteneva era la fede e la convinzione che “il desiderio di preghiera era già una preghiera”, assieme al tesoro incommensurabile messo nelle sue mani: il potere di assolvere i peccati. Stupendo ministero del presbitero che “dona una pace che spesso neppure lui possiede in sé”.

Sorretto dal ricordo del capolavoro di Bernanos, tra una messa e l’altra mi metto in confessionale, con il cuore che batte forte. E tra i vari penitenti, si accosta l’autore della lettera anonima, sospirando profondamente dietro la grata: “Lei ha assolto una prostituta dopo venticinque anni, ma forse non può assolvere un “porco” come me. Anche perché, benché vecchio, non so se riuscirò a cambiare vita”.

Ripenso ad una delle più belle riflessioni di Bernanos, là dove il curato strappa un mezza pagina in cui la confessione si faceva più scottante: “Il peccato contro la speranza – il più mortale di tutti – è forse il meglio accolto, il più accarezzato. Ci vuole molto tempo per riconoscerlo e la tristezza che lo annuncia e lo precede è così dolce! E’ il più ricco degli elisir del demonio, la sua ambrosia. Giacché l’angoscia…”.

Il curato aveva strappato la pagina dopo la parola angoscia. Io, che cosa dovrei strappare? Le pagine incancellabili di una vita che quel penitente non può, non vuole cambiare?

La parola “penitente” ora mi illumina la mente e accende il cuore. Quest’uomo è qui perché si vergogna dei suoi peccati. Devo, forse, spegnere il lumicino fumigante? Devo ricorrere ai dettami del diritto canonico che m’impone di non assolvere o agli illuminati principi della morale cattolica che invita a cercare sempre uno spiraglio in cui possa fare breccia la misericordia del Signore? Non consiste, forse, la salvezza nell’abbandono totale nelle mani di Dio che ci attira a sé non in virtù della sapienza umana del teologo, ma del suo amore gratuito di Padre? Non ha forse detto Cristo, nel vangelo odierno: “Chi è senza peccato, scagli la prima pietra”? Ora il mio silenzio imbarazza il penitente: “Padre, non merito l’assoluzione?”. “L’amore non si merita, si accoglie. Io ti assolvo dai tuoi peccati…”.

Se ne va ringraziando, il penitente, mentre io penso alla fine della vita del curato di campagna: per terra, sulla neve, fuori della chiesa, con lo sguardo fisso al cielo dove volteggiano, liberi, alcuni uccelli… Dilaniato dal cancro, ma sorretto dalla fede, sussurra: “Tutto è grazia”.

Valentino