Ponte Nossa, 18 Marzo 2010

Quaranta, deserto, tentazioni e … fede: alla scuola dei poveri

Cristo, nel deserto, passa attraverso le tre tentazioni al termine di quaranta giorni di digiuno, secondo Matteo. Con questa immagine letteraria – e con il riferimento al numero 40, che significa tutta una generazione – l’Evangelista intende insegnarci che, durante tutta la sua esistenza, il Maestro visse la dimensione del deserto e continuamente subì la tentazione della prosperità, della popolarità e del potere, fino all’ultima tentazione: “Dio mio, Dio mio! Perché mi hai abbandonato?”.

Quaranta… E’ notte ed io inizio il quarantesimo anno della mia ordinazione presbiterale volando sopra il deserto del Sahara. Sono incollato all’oblò, ma non vedo nulla sotto di me. Mentre sopra di me il cielo è trapuntato di stelle, tra le quali cerco, invano, la croce del sud.

Quaranta, deserto, tentazioni. Temi ricorrenti ma, forse, mai presi abbastanza sul serio. E non per fare bilanci: lascio a Dio il privilegio di giudicare, ma per guardare avanti e cercare di scoprire se, come il Signore, ho ancora voglia di “passare in mezzo alla gente facendo del bene” e di cercare il giusto metodo, per rispondere con coraggio ai mutevoli segni dei tempi.

La ricerca del bene non viene meno con l’invecchiare e, per il credente, gli orizzonti del bene, del buono e del bello sono chiaramente delineati da Dio che guida ciascuno di noi con una provvidenza specifica, dato che, come dice Isaia, ha “tatuato il mio nome sul palmo della sua mano”.

Quanto al metodo, mi sembra che la Provvidenza abbia una parola chiara, ancora una volta, da suggerire: mettermi di nuovo alla scuola dei poveri e, se potrò, andare a vivere per sempre con loro.

Il confronto tra Nord e Sud del mondo fa risaltare chiaramente che le ricchezze materiali di molti occidentali non danno la felicità, specialmente per chi non alberga Dio nel suo intimo. “L’esecranda fame dell’oro” crea infelici, mai sazi di quanto hanno e disposti a depredare il creato e a rubare le briciole di pane dalla bocca dei poveri, pur di possedere sempre più cose materiali.

La maggior parte, invece, degli abitanti dei paesi impoveriti, sia perché godono del dono della fede, sia perché ci si abitua a tutto nella vita, riescono a sorridere in situazioni che, umanamente parlando, dovrebbero essere giudicate assurde.

Sono tornato nel Malawi dopo 30 anni dall’ultima mia visita. A parte il crollo della dittatura di Kamuzu Banda – che non pochi rimpiangono… – si è abbassato il livello culturale nelle scuole, si vive di una economia di sussistenza, quei pochi che hanno un impiego guadagnano dieci euro al mese (e una birra piccola costa 70 centesimi). Eppure la gente – dignitosamente povera – sorride. Ti ringrazia quando la ringrazi e ti lasci aiutare. I giovani invadono le chiese e chiedono solo di cantare, cantare e ancora cantare.

Naturalmente anche gli Africani hanno il peccato originale: anche loro sono invidiosi e sbagliano come tutti gli esseri umani. Hanno tempi biblici che scandalizzano l’efficiente occidentale. Pure nelle situazioni più disagiate vanno ripetendo: “Nessun problema”. Dicono sempre di sì, ma concludono le cose come e quando vogliono. E’ comunque sorprendente il fatto che, lasciandoli fare, anche solo all’ultimo minuto, arrivano ad un compromesso accettabile.

Nel passato, parlando della miseria del continente Nero, attribuivo molte responsabilità agli Arabi e agli Occidentali, colpevoli dello schiavismo, del colonialismo e del neocolonialismo. Ora non esito ad accusare i politici e i ricchi locali e ne pago le conseguenze. Però, indipendentemente dalla ricerca dei colpevoli, vedendo come vivono gli Africani, come reagiscono all’immane caterva di dolore che stroncherebbe la stragrande maggioranza degli Occidentali, ammiro sempre più questa gente che risponde alla sofferenza con una professione di fede: “Mulungu alipo”: “Dio c’è”.

E poiché Lui c’è, ed è Padre, non può permettere ai suoi figli di soffrire oltre misura, non propone loro un’esistenza senza senso, non li lascia cadere nel nulla. Quel nulla che è fonte di tanta angoscia per chi non ha una fede.

Quaranta, deserto, tentazioni e… fede. Fede che ancora una volta, in questi giorni, ho visto animare l’esistenza delle donne, sulle spalle delle quali grava il peso di sfamare la famiglia, lavorare i campi, soccorrere il prossimo; fede dei giovani che, pur senza una futuro, sanno danzare la vita; fede dei morenti che assicurano di stare bene, anche perché stanno andando a vedere Dio; fede degli adulti che passano l’esistenza camminando – dove vadano, non lo so, ma sempre sono in movimento su quei sentieri che i loro passi forgiano da una capanna all’altra, da un villaggio all’altro, sempre a piedi, in questo Paese in cui c’è una sola macchina per ogni 303 abitanti -; fede dei preti locali che, pur vittime della loro miseria, senza un salario, dipendenti dalla carità dei fedeli, spendono la vita tra l’altare e l’ospedale a trasportare malati, visto che essi hanno la macchina …

E , anche per me, fede in quel Dio che questa notte non mi lascia vedere il deserto, ma mi regala tante stelle. Come quelle che godevo nelle notti trascorse in un buio totale, rischiarato da improvvisi lampi, da fuochi fatui e animato da tante, tante “voci” di animali, insetti e uccelli. Voci stonate e monotone se prese una per una, ma armoniose nel complesso di quelle noti tipicamente africane, durante le quali anche Dio si fa voce di ogni sua creatura, bella e grande quando loda il Signore.

Valentino